Tuttolibri, 25 gennaio 2020
QQAN60 Caro Einstein, perché non ti tagli i capelli?
QQAN60
Princeton, New Jersey, Stati Uniti. Inverno, 8 del mattino, weekday. La strada principale si chiama Nassau Street, è lunga, saranno venti blocchi, la percorro a piedi. Mi è difficile attribuirle una sua personalità, ad ogni semaforo se mi guardo indietro mi vengono in mente altri luoghi. Casette basse, uno o due piani al massimo, il legno è a vista come neanche Sestriere sa fare. Negozietti di vestiti, non la grande distribuzione, marchi indipendenti, solo cose ricercate, tipo a Pietrasanta. Bistrot, locali con la musica dal vivo e le locandine appese sulla porta, in questo caso sembra di essere a Genova. Una chiesa luterana, uno Starbucks, il Fruity Yogurt, il teatro, un Kung Fu Tea, una chiesa presbiteriana, due Jewish Center, la grande libreria, un ristorante turco e uno messicano, l’Università è al centro. Ma è il negozio che vende cappelli, sciarpe e abiti di lana che mi spedisce dritto ad Oslo, è il posto più suggestivo in cui entrare. Lo faceva sempre anche Albert Einstein. E infatti all’interno gli hanno dedicato un angolo del negozio, un piccolo museo, con le sue foto, i ritagli di giornali dell’epoca, libri, il suo autografo originale è incorniciato e appeso, così come le lettere dei bambini. Sono proprio queste ad incuriosirmi. Ma prima di continuare il racconto, faccio un passo indietro.
Albert Einstein è nato tedesco, poi ha preso la nazionalità Svizzera, e infine è diventato americano. Era ebreo. Nel 1933 salì al potere Adolf Hitler, promulgò la legge secondo cui i professori e gli studenti di origine ebraica dovevano lasciare le scuole, Einstein aveva 54 anni e si trovava a Princeton, insegnava all’Institute for Advanced Study, non tornò più in Europa per il resto della sua vita. Morì nel 1955, felice. Felice, così dicono gli archivi della Hebrew University che ho studiato (a Gerusalemme è conservato, per suo volere, il suo più grande archivio), e dove sono andata a fare le ricerche prima di arrivare in America. Felice, perché faceva solo quello che gli piaceva. Usciva di casa presto, e si avviava verso l’Institute facendo una bella passeggiata. Pensava alla Teoria della Grande Unificazione. Ripensava alla fisica quantistica. Suonava il violino, e rispondeva alle lettere dei bambini. Chiamava la sua segretaria, Helen Dunkan, le dettava le risposte, e gliele faceva spedire all’indirizzo scritto sulla busta.
Leggo le lettere. Una ventina. Uno gli propone di tagliarsi i capelli, uno gli chiede cosa c’è dietro il cielo, una bambina gli fa domande esistenziali, altre gli fanno domande sulla fisica, sulla relatività, i bambini si fanno domande difficili, sono gli adulti che non sanno rispondere. Per questo scrivono direttamente ad Einstein.
La mia grande scoperta dei giorni passati in America è che lo fanno anche i bambini di oggi. All’ufficio postale di Trenton mi dicono che smistano posta per lui da oltre sessant’anni. Chiunque gli scrive ancora, da ogni parte del mondo. Alcune lettere sono indirizzate al 112 Mercer Street, dove viveva. Altre al suo vecchio ufficio. Ci vado. Trovo le conferme.
Arrivata in fondo a Nassau Street giro a sinistra e prendo Mercer Street. Arrivo fino al civico 112, e mi fermo. Decido di oltrepassare il cancelletto, è una proprietà privata, la Police avrebbe potuto arrestarmi. La villetta è bianca, ristrutturata, arrivo dietro alla porta e busso. La prima volta, niente. Me ne vado. Torno. Seconda volta, niente. Me ne vado. Torno. Terza volta, niente. Me ne vado. Torno. Sarà il sesto tentativo quello più fortunato, e grazie al quale parlerò con chi abita dentro.
Decido di fare il suo stesso percorso, a piedi fino all’Institute. Esco dalla villa e arrivo in mezzora al suo ufficio, rispetto agli anni 50 non ci sono solo distese di verde e alberi, la città è cresciuta. Ora c’è Freeman Dyson che è bello incontrare qui, e con cui parlare ore. Metto insieme un elenco di musiche che Einstein suonava con il suo violino, la sua personalissima playlist.
Ma torniamo dentro al negozio di lana. La proprietaria mi guarda perplessa, perché non ho ancora comprato niente e sto leggendo da due ore ogni cosa che vedo appesa alle pareti. Decido di comprare una sciarpa, sei libri, alcune memorabilia, un poster e tre pupazzetti di Einstein. Ora ho il suo benestare, posso proseguire nella lettura. Ma dopo qualche minuto, è di nuovo da me. Inizia a farmi domande. Chi sono, da dove vengo, mi dice qui vediamo sempre le stesse persone, qui ci conosciamo tutti, eccetera così. Le racconto quello che faccio, dei libri che scrivo e degli spettacoli teatrali che porto in tour in tutto il mondo. Mi chiede perché ora ho deciso di raccontare Albert Einstein, e io le rispondo che avevo un debito con lui. Mi chiede perché, mi chiede quali fisici ho raccontato finora, mi chiede dove mi sono laureata in fisica, mi chiede se sono sposata, mi chiede di raccontarle una storia. Le racconto la storia di Mileva Maric, la prima moglie di Einstein (quella del suo periodo europeo), madre dei suoi figli, fisica, sognatrice, a cui la società maschilista del tempo ha impedito di realizzarsi come scienziata. Mi chiede se ho raccontato già altre scienziate, oltre a Mileva. Le rispondo che sì, certo, Marie Curie, Hedy Lamarr, Lise Meitner. Le dico che la mia regola è: per ogni fisico del XX Secolo che racconto nei miei libri o monologhi teatrali, in parallelo mi impongo di raccontare anche una donna che è stata oscurata, nascosta, sminuita nella professione di scienziata dalla società di quegli anni. Lei mi fa cenno ad un applauso, si scusa per avermi distolto dalla lettura, e finge di lasciarmi in pace. Invece resta lì, ferma. Cerco di non darle più retta, ma lei irrompe di nuovo, stavolta non mi giro, è dietro, sento solo la sua voce, con la coda dell’occhio vedo il suo dito che indica le lettere dei bambini appese ai muri, da cui proprio lei mi ha distratto con le sue richieste di attenzione, mi chiede se io saprei rispondere. Le dico di sì, e inizio a scrivere il libro.