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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

49QQAFM10 Sul nuovo libro di Fredrik Sjöberg

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Per scrivere questo Mamma è matta, papà è ubriaco, appena uscito per Iperborea (traduzione di Andrea Bernardini), Fredrik Sjöberg ha soggiornato un po’ di tempo a Bordighera, e ha notato che ci sono degli alberi, a Bordighera, che sono gli stessi che sono stati dipinti, alla fine dell’ottocento, da Monet. 
Ci sono dei fichi strangolatori (Ficus macrophylla), a Bordighera, che meritano senz’altro una visita degli appassionati, «coloro che girano il mondo per fotografarsi ai piedi di noti fichi strangolatori. È una forma di collezionismo come tante. C’è anche chi gira il mondo per recensire tutte le montagne russe esistenti. O le linee metropolitane, dalle più vecchie a Budapest e Istanbul alla più grande, che si trova a Seoul e ha più di cinquecento stazioni, per non parlare della più piccola, a Catania, che non arriva neanche a dieci stazioni. Collezionare esperienze simili è altrettanto insensato quanto la vita stessa, – scrive Sjöberg – e altrettanto interessante». 
Io, che non sapevo che a Catania ci fosse una metropolitana, sono convinto che se andassi a Bordighera non farei assolutamente caso ai fichi strangolatori che sono rimasti così impressi a Sjöberg. 
Sjöberg mi interessa forse proprio per quello, perché nota cose diversissime da quelle che noterei io. Il suo è lo sguardo del collezionista (il suo libro più celebre si intitola L’arte di collezionare mosche), e il suo delirio è il delirio del collezionista; siamo tutti un po’ stati dei collezionisti, chi ha la mia età non credo possa ricordare senza tenerezza e vergogna il sé stesso tredicenne che entrava nei negozi e chiedeva «Avete degli adesivi?». 
Sjöberg dice che il collezionismo «è una forma di automedicazione», e, non so bene nella vita, ho rinunciato da anni ai francobolli e agli adesivi, ma in letteratura funziona. 
È bello leggere del giovane Sjöberg che, a piedi nudi, su una spiaggia del mar Baltico, andava a caccia di quel che avrebbe trovato, qualsiasi cosa, «una dentiera, con ancora tutti i suoi denti ben curati» e «quattro bottiglie di plastica bianca con sopra delle scritte in cirillico», che lui pensa siano «shampoo sovietici» e che collega alle «foto di Leonid Brežnev pubblicate dai giornali, con la sua fronte bassa e le sue sopracciglia a spazzola da scarpe». 
In Mamma è matta, papà è ubriaco Sjöberg prova a ricostruire la vicenda di un dipinto che ha comprato a un’asta senza sapere chi ne fosse l’autore. Il dipinto ritrae «Due ragazze depresse. Non abbacchiate, o tristi, o arrabbiate, depresse per davvero. Come quando tutto il male ti cammina dentro, arriva allo stomaco e si fa così nero e pesante da convincerti che in fondo l’unico a cui dare la colpa di tutto sei tu».
Non ci mette tanto, Sjöberg, a scoprire l’autore, si chiama Anton Dich, e ha conosciuto, tra gli altri, Chaim Soutine e Amedeo Modigliani, del quale possiede degli schizzi ciascuno dei quali «vale quanto una villetta» (uno ritrae una delle ragazze dipinte anche da Dich). 
Il libro ricostruisce la storia di quel dipinto e le vicende biografiche di Dich con uno stile che, a me, sembra un misto tra la deliziosa ansia classificatoria di Perec e il piacevolmente fastidioso esibizionismo di Carrère, salvo che, a chiedere a Sjöberg, come mi è capitato di fare, se siano quelli i suoi riferimenti letterari, l’oulipo e l’autofiction, può succedere di sentirsi rispondere che lui, quegli autori lì, forse non li ha neanche mai letti, e che quello che scrive lui, in fin dei conti, è un’autobiografia. 
In quest’ultima parte, dell’autobiografia di Sjöberg, oltre ai fichi strangolatori e agli shampoo sovietici, si incontrano tante cose e tante persone, per esempio «Gerda Wegener, che ha frequentato l’accademia nello stesso periodo di Dich, e oggi è nota grazie al blockbuster hollywoodiano The Danish Girl e che era, secondo Sjöberg, una brava pittrice, «ma era finita sulla bocca di tutti perché suo marito, anche lui ex allievo dell’accademia di Copenhagen, fece coming out dichiarandosi donna e fu la prima persona al mondo a sottoporsi (morendone) a un intervento di riassegnazione chirurgica del sesso»; o il «libretto Anguille e turbine, pubblicato nel triste anno 1941 dall’Associazione svedese per l’energia idrica», nel quale «un giovane professore associato, che avrebbe poi avuto la sua cattedra, si era assunto l’incarico di scoprire quante anguille sarebbero sopravvissute attraversando l’impianto idroelettrico Untraverket, nel Daläv»; qui, chi non lo sa già, come me, scopre perché Modigliani lo chiamavano «Modì, con l’accento sulla i, perché tutto questo avveniva a Parigi negli anni Dieci, e i francesi adorano i giochi di parole. C’è sempre qualcosa che non si capisce, un sottinteso, e intanto loro ridono nella loro intesa esclusiva. Maudit si pronuncia allo stesso modo, viene dal verbo maudire e significa Maledetto». 
Mi è tornata in mente, a leggere questo libro di Sjöberg, una cosa che ha scritto, una dozzina di anni fa, Ugo Cornia: «C’è qualcosa, nelle nostre vite singolari, cioè nelle vite che ognuno di noi fa normalmente tutti i giorni, che per sua virtù propria ha il potere di sbalestrare qualsiasi discorso: nei fatti noi, quasi tutti, non siamo altro che delle collezioni ambulanti, una collezione di cose in bilico dove ci sta dentro un po’ di tutto, un po’ di prati, pioppeti, lavori, hobby, nuvole, carriole del nonno, automobili, mamme».
Sono belle da guardare, le cose che stanno dentro Fredrik Sjöberg, ordinate benissimo, con una gran cura.