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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

12QQAFM11 Intervista allo scrittore Jeffrey Archer

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«Ah l’Italia... l’Italia... Il paese più bello del mondo. Ci vado almeno due volte l’anno. Per l’arte e a fare shopping. Ricordo ancora quella volta che a un Outlet fuori Firenze ho comprato sei paia di pantaloni e di calzini perché erano a un quarto del prezzo». Jeffrey Archer ride soddisfatto, allungato in una poltrona di design. Le gambe accavallate, dondola un piede fasciato dalla pantofola in velluto nero con coroncina dorata. Siamo al tredicesimo piano di un lussuoso palazzo di Londra a sud del Tamigi, il cui ingresso è vigilato da un portiere di colore. Dalle vetrate a piena parete del suo super attico si domina tutta la città, dal Parlamento di Westminster fino alla «Shard» di Renzo Piano. Il sole sta scendendo, il cielo si colora di rosa. La vita è meravigliosa, da quassù. Questa casa, tutta una boiserie di legno chiaro pregiato, tappeti e oggetti costosi, sembra più la dimora di Gordon Gekko che quella di un autore di libri. 
Calzini con lo sconto? Scusi, ma tutti questi soldi a che le servono allora? «Per comprare quelli» sogghigna. E con il braccio fa un ampio gesto e indica le pareti. A un primo colpo d’occhio riconosco due Picasso, un Utrillo, un Pissarro, un Monet. Ma chissà quanti altri gioielli nasconde questa casa. «Magnifici, eh? In una piccola città in Italia ci sono più capolavori che in una grande galleria di Londra. Ci vado ogni anno con Chris e Simon, i miei due amici di sempre. Noi tre, niente mogli, beviamo, mangiamo e andiamo per gallerie. Quest’anno la meta è già decisa: Sicilia». Jeffrey Archer ha venduto 330 milioni di copie ed è nella top ten degli autori più ricchi del pianeta («tra i primi cinque», corregge). Dai suoi libri hanno tratto serie e film per la tv. A 79 anni, la sua vita più che un romanzo, come si legge spesso, è stata un ottovolante. Dal padre avventuriero (bigamo, truffatore e imbroglione) ha ereditato la faccia tosta. Orfano a 16 anni, studente non brillante, finisce l’istituto tecnico (anche se dice di aver fatto il liceo), tenta la carriera militare e quella in polizia. Poi fa l’istruttore di ginnastica e lavora per l’ente di beneficenza Oxfam (e lì studierà campagne promozionali con i Beatles e Elvis Presley). Quindi riesce a infilarsi in un corso per studenti lavoratori a Oxford, dove non è chiaro se si sia infine laureato e in cosa. Di sicuro a Oxford incontra Mary, brillante studentessa e scienziata esperta in energia solare, che sposa nel 1966 e da cui avrà due figli. Da giovane vuole fare il politico. A 29 anni è eletto deputato conservatore. Travolto da uno scandalo finanziario finisce in bancarotta ed è costretto a lasciare la politica. Siamo a metà degli anni ’70. Ma lui non si dà per vinto e decide di mettersi a scrivere romanzi per fare qualche soldo, con alterne fortune. 
La svolta arriva nel 1979 con Caino e Abele, che entra direttamente nella top ten del New York Times e lo consacra come autore da stratosfera: ad oggi ha venduto oltre 32 milioni di copie. Da quarantenne romanziere ormai miliardario torna alla sua passione politica: Margaret Thatcher lo impone come vicepresidente del partito conservatore. Nel 1992 diventa addirittura baronetto e si guadagna un posto alla camera dei Lord, dove tutt’ora siede. Ma di nuovo (e siamo alla fine degli anni Novanta) è travolto da altri scandali: in uno c’è di mezzo una prostituta, in un altro accuse di insider trading. Per farla breve, mentre lancia la sua candidatura a sindaco di Londra, escono le prove che ha mentito in uno dei processi di cui sopra e alla bella età di 62 anni, miliardario, finisce in galera per due anni (dal 2001 al 2003). Bancarottiere, spergiuro, truffatore, ladro (rubò addirittura tre giacche, giustificandosi che non si era accorto di essere uscito dal negozio con gli abiti sul braccio), l’uomo è indubbiamente un personaggio cui fare qualche domanda, mentre in Italia HarperCollins pubblica Più della spada, il quinto dei sette volumi della saga dei Clifton, stoicamente tradotti dal bravo Seba Pezzani (gli ultimi due sono in lavorazione e seguiranno a breve).
Lei è tradotto in 33 lingue e venduto in 97 paesi. Più o meno ovunque nel pianeta, appena esce un suo libro si piazza in testa alle classifiche per settimane. In Italia invece ancora stenta a decollare. Ha capito perché? 
«Non ne ho idea. Ogni mio libro è numero uno in Germania e in molti altri paesi del mondo. In India sono famoso come una rockstar. L’ultima volta alle presentazioni c’erano settemila persone. Con i libri non si può mai dire cosa succede». 
Secondo lei esiste una ricetta segreta del bestseller? 
«No. La mia è: scrivi il libro e poi prega. Io non sono uno scrittore. Io sono un narratore. E il narratore è uno che tiene il lettore incollato alla pagina. Questo è quello che so fare». 
Chi sono gli scrittori invece, secondo lei? 
«Graham Greene è uno scrittore. Salman Rushdie o Martin Amis anche. Poi ci sono quelli come Stefan Zweig o Charles Dickens o Jane Austen, che sono sia narratori che scrittori. E sono quelli che preferisco». 
Quanto di autobiografico c’è nei suoi libri?
«Ognuno mette qualcosa di suo, ovvio. Ai giovani che vogliono consigli dico sempre: scrivete di quello che conoscete. L’altro giorno parlavo con uno che lavora da un parrucchiere. Gli ho detto: sei donne sedute in fila sotto un casco! Sono già un romanzo... puoi andare avanti per secoli con sei donne che chiacchierano». 
Lei dove prende le sue storie? 
«È un dono del cielo. Ogni giorno mi sveglio e le storie vengono a me. Un po’ come nel film di Elton John in cui lui si siede al piano all’audizione per entrare alla Royal Academy e suona senza conoscere le note». 
Quando ha capito di avere questo dono? 
«Piuttosto tardi, in verità. Ho iniziato a 34 anni. Il mio primo libro Not a penny less not a penny more è stato rifiutato da 17 editori e il diciottesimo l’ha pubblicato e la prima edizione ha venduto tremila copie». 
Quanta realtà e quanta fiction mette nei suoi libri? 
«La realtà è sempre molto più incredibile della fiction. Quindi cerco di metterne poca, per rendere le storie credibili. Pensi se dieci anni fa avessi scritto in un libro che il presidente degli Stati Uniti si vestiva da Superman. I lettori avrebbero riso. E invece Trump l’ha fatto». 
Emma però, il personaggio più rotondo e positivo della saga dei Clifton, è sua moglie Mary, giusto? 
«Sì. Una donna incredibile. Dopo la laurea ha insegnato a Oxford, poi è stata presidente del Great Hospital, l’ospedale universitario di Cambridge e ora è presidente del Museo delle Scienze della Gran Bretagna. Siamo sposati da 53 anni». 
Com’è che a settant’anni lei ha deciso di iniziare una saga in sette volumi? 
«Doveva essere di cinque. E quindi dovevo vivere almeno fino a 75, uno l’anno. Poi è diventata di sette, e a 77 l’ho finita. Ora ne ho iniziata un’altra. E nei miei piani è in otto volumi. Se non muoio prima». 
Deve campare fino a 86 anni, allora. Perché non si mette tranquillo e si gode la vita?
«A me piace scrivere. Non ho mai lavorato così duro come negli ultimi dieci anni. Non è per i soldi. La questione della sopravvivenza l’ho risolta con Caino e Abele. Da allora sono milionario. Scrivo e curo ogni aspetto della pubblicazione, perché mi piace essere letto».
Quando scrive? 
«Sempre. A parte quando gente come lei viene a distrarmi. Ah Ah ah».
Per questo quando inizia un nuovo libro si ritira nella sua casa di Maiorca che ha chiamato sarcasticamente "Blocco dello scrittore"? 
«Se sto a Londra scrivo due ore la mattina, dalle 6 alle 8. E poi vedo persone e faccio cose, tipo sono un banditore alle aste di beneficenza. Ma quando scrivo la prima bozza lavoro otto ore al giorno. Dalle 6 alle 8 di mattina. Poi due ore di pausa, faccio una passeggiata. Quindi lavoro dalle 10 alle 12. Poi due ore di pausa e pranzo leggero. Dalle 2 alle 4 del pomeriggio. Poi due ore di pausa. E dalle 6 alle 8. Cena leggera e vado a letto alle 9 e mezzo, dieci al massimo». 
Un monaco alla catena di montaggio. 
«Per finire la prima stesura ci metto 51 giorni. Al massimo 52 o 53. Sono circa trecento ore di lavoro». 
Un contabile. 
«Ma non è finita lì. Faccio almeno 14 bozze prima di arrivare a una stesura definitiva, da presentare all’editore. Scrivere è un lavoro serio. Non ci sono scorciatoie». 
Quelle invece nella vita lei le ha cercate e ha avuto anche parecchi inciampi. Ci parla di com’è stata l’esperienza della prigione?
«No. Ci ho già scritto sopra e non ho niente da aggiungere». 
Sia in «Caino e Abele» che nei Clifton ci sono due famiglie di estrazioni diverse e lei racconta le dinamiche tra ricchi e poveri, privilegiati e perdenti. Perché sempre questo tema? 
«Gli inglesi sono ossessionati con le classi sociali. Guardi anche il successo di The Crown. I miei libri sono d’ispirazione per le persone. La gente vuole salire la scala sociale».
Un rimpianto? 
«Non essere andato abbastanza avanti in politica. Quello lo considero un fallimento». 
Lei è stato braccio destro della Thatcher. Cosa pensa che farebbe con Brexit?
«Impossibile dirlo, perché lei non avrebbe mai permesso un referendum. Quindi non si sarebbe trovata in questa situazione. Margaret non credeva nei referendum. Per lei il gioco era: sei eletto, governi e poi torni dal popolo con le elezioni e vedi se ti rieleggono. Ma lei è morta! Io ci parlo ogni notte e mi dice: che combinate?».
Nel 1969 lei ha votato per entrare nell’Unione europea. Ora? 
«Sono rimasto un Remainer. E credo che siamo tutti matti».