Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 25 Sabato calendario

Intervista a Letizia Battaglia

La sua arma di ribellione è sempre stata la fotografia. A 84 anni (è nata a Palermo nel 1935), splendida nel suo anticonformismo dai capelli rosa, Letizia Battaglia è una donna che nella vita ha sfidato con coraggio molte convenzioni. Non è solo diventata un simbolo della lotta alla mafia di cui ha raccontato i sanguinosi anni con passione militante (celebre il suo scatto che il 6 gennaio 1980 immortalò l’allora presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella esanime tra le braccia del fratello Sergio), ma rappresenta anche un modello di emancipazione femminile di grande attualità. In questi giorni espone a Bologna all’interno di «Booming-Contemporary Art Show», la fiera d’arte contemporanea dedicata agli emergenti, dove si dibatte anche di «femminismi», ovvero del ruolo delle donne nel sistema e nel mercato dell’arte. 
Che ruolo ha l’arte oggi, compresa la fotografia, nello svegliare, nell’indirizzare le coscienze?
«L’arte in generale può molto - la musica, il cinema, l’arte visiva, qualsiasi cosa - ma dev’essere rivoluzionaria o non esiste. Non è niente. Le menate intellettuali che non sfondano le pareti, i muri, non servono a nulla».
Lei non è solo fotografa, è anche molto attiva in politica.
«Sono stata consigliere comunale, assessore dei Verdi (con la giunta di Leoluca Orlando), deputato (nel 1990) però oggi non lo farei manco sparata perché trovo che la politica nelle istituzioni sia molto crudele, bieca, egoista. Però ogni cosa che faccio è politica. Anche dirigere il Centro Internazionale di Fotografia per me è un impegno politico: fare crescere le persone, alimentare la cultura, questo è fare politica. Dirigo una rivista che si chiama Mezzocielo, lavoro con un gruppo di donne straordinario: non è vanità, non è potere perché non prendo soldi, però è politica. Politica per me è cambiare il mondo. All’interno delle istituzioni è difficile cambiare il mondo se non cambia la cultura».
Come si colloca la donna in tutto questo?
«Ho un disprezzo quasi profondo per il maschio. Da solo l’uomo non ce la fa più, non possiamo più delegare gli uomini ad amministrare la Terra. La Terra brucia, noi donne abbiamo il dovere, non il diritto, di andare ad amministrare metà del mondo. Dobbiamo sporcarci le mani e lavorare sodo, ognuno nel suo campo. Chi ha 30 anni deve fare politica. Vedo donne fantastiche che non hanno un grande ruolo all’interno del Parlamento. Dovrebbero forse osare di più, credere di più in sé stesse. Siamo in una società maschilista, anche se noi donne crediamo di avere conquistato molto. Qualcosa abbiamo conquistato. Le ragazze escono da sole di notte, fanno l’amore, ma questa non è la vera conquista. È una piccola conquista. Certo non è come ai miei tempi quando a 16 anni mi sposai per sfuggire a un padre geloso. Oggi le ragazze hanno più autonomia, possono studiare, però poi si fermano, questo è il punto. Le fermano. Dobbiamo avere più energia, più coraggio».
Lei battagliera lo è sempre stata.
«Non sono riuscita a esserlo per anni. Battagliera lo sto diventando sempre di più nella vecchiaia, perché l’esperienza e la forza mentale che ancora mi ritrovo mi spingono a lavorare per la società, per migliorare, non me sola, tutti. Il prossimo numero di Mezzocielo lo dedichiamo proprio a questo. Al fatto che noi abbiamo il dovere di lottare. Bisogna avere una coscienza sociale, politica e anche umana. I rapporti con gli uomini non funzionano più perché non comunichiamo più: continuano con la loro testa, per millenni hanno gestito in un certo modo la loro vita e ora ritrovano nella loro vita queste donne con esigenze che non riescono ad accettare». 
Parlando del suo impegno, lei ha raccontato la Sicilia e le guerre di mafia dal ’74 al ’91.
«Ma ho anche raccontato la vita. Finalmente si è scoperto che io non ho fotografato solo la mafia, ho fotografato la vita, l’amore, la bellezza, l’intelligenza. Nella mostra di Milano, appena conclusa, sono state esposte oltre 300 immagini che ben poco hanno a che fare con la mafia. Per cui lottare non vuole dire solo denunciare gli sporcaccioni. Vuol dire anche creare bellezza».
Quali erano, quando ha cominciato, le difficoltà per una donna che entrava in un territorio normalmente di appannaggio maschile?
«Ho trovato difficoltà sempre. Come mamma, come moglie, come donna. In una società maschilista è chiaro che trovi tutti gli ostacoli possibili, ma io non me ne sono quasi accorta, ero così abituata a dover urlare, a dovere farmi spazio, a creare possibilità per esprimermi. E mi sembrava normale avere paura, avere sgomento, non avere il coraggio manco di mettere il naso fuori casa. Però io l’ho fatto, non ho ubbidito alla paura e al disagio. Mi sono guadagnata un ruolo partendo dal niente, lottando, anche con rabbia. Oggi sono una vecchia coi capelli rosa e con le rughe. Non sono in balia di un premio o di una carezza o di un guadagno. Sono in perfetto equilibrio perché in armonia con me stessa. E ci puoi arrivare se lavori su te stessa, se ti amalgami nella società, se doni. Poi devi lottare affinché le cose siano giuste e rispettose.
«Io non ho mai fotografato per cercare lo scoop o per fare soldi. Uno scatto non si ruba con violenza, fai un sorriso e ti avvicini… Certo, quando mi avvicinavo al mafioso avevo la macchina fotografica incollata sugli occhi, ma l’ho sempre fatto con rispetto. Ho sempre lottato contro la mafia, ma quando diventai consigliere comunale la prima cosa che chiesi al sindaco fu di fare il consulente per il carcere di Palermo, perché volevo trovare un sorriso anche per chi aveva fatto del male. Non credo nel carcere, non credo nei centri per gli anziani, nei ghetti. Un carcere se non ti aiuta a tirarti fuori non serve a niente. Per ora il carcere è così».
La fotografia nel mondo degli smartphone e dei social: il mezzo è cambiato, come cambia il messaggio? 
«Non importa la macchina e neppure il metodo, importa quello che hai nella testa, nel cuore e nel tuo vissuto. Devi riuscire a trovare quell’empatia tra te e il mondo, con qualsiasi mezzo. Una poesia la puoi scrivere al computer ed è una cagata, puoi scriverla con la biro ed è una cosa meravigliosa. La fotografia è lo stesso. L’importante è che tu abbia un progetto dentro, rivoluzionario e di talento artistico».