La Stampa, 25 gennaio 2020
Il clippino e Bonafede
Accidenti al clippino: si vede Annalisa Cuzzocrea (giornalista di Repubblica) invitare il titolare della Giustizia, Alfonso Bonafede, a curarsi degli innocenti in carcere. Sono tanti, come sa chi legge questa rubrica. Il 34 e virgola per cento degli oltre 60 mila detenuti è in attesa di giudizio e, secondo statistica, la metà sarà assolta; in media ogni anno finiscono dentro mille persone che non avevano fatto nulla, tre al giorno. Sono numeri tremendi e noti, e tuttavia nel clippino si intuisce Bonafede intento a dire qualcosa pur di dirla, e la dice, e per due volte: gli innocenti non vanno in carcere. Praticamente, «se è in galera qualcosa avrà fatto», segnale dell’ormai perfetta sovrapponibilità fra birreria e istituzioni. Ma il problema è il clippino, l’ultima terrificante moda politica (e giornalistica). Funziona così, uno va in tv, ci sta un’ora e mezzo, poi tira fuori la clip di venti secondi in cui fa un figurone e la pubblica su Internet: non importa se per il resto del tempo ha infilato una balengata via l’altra, il clippino girerà e girerà a fare il suo sporco lavoro. E lo fa bene specie se è dedicato alla figuraccia dell’avversario, condizione in cui si è riconosciuto Bonafede, a vedere ovunque la sua facciotta a scandire, come in un rap che in paragone Junior Cally ha i testi di Topo Gigio, gli-innocenti-non-vanno-in-carcere-gli-innocenti-non-vanno-in-carcere. Ieri mattina, pertanto, ha provato a rimediare con una nota in cui spiegava il senso di un pensiero così biecamente strumentalizzato: volevo dire, ha scritto, che non vanno in carcere «coloro che vengono assolti». Gli assolti tirano un sospiro di sollievo.