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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

Biografia di Gian Carlo Ferretti raccontata da lui stesso

L’uomo che sussurrava all’editoria compirà novant’anni tra qualche mese. Mi dice che la vecchiaia ha sconfitto le sue nevrosi. E che dopo averle così a lungo contrastate crede di aver perso delle compagne ingombranti e spiacevoli, che lo facevano soffrire ma gli davano anche la sensazione della vivezza del combattimento: «Non è che mi senta vuoto, anzi. È che non pensare più con ossessione a qualcosa ha come immiserito i miei compiti. Che ci posso fare? Sono gli imprevisti della vecchiaia. Ma questa condizione ha il suo lato buono, mi aiuta a capire che le situazioni importanti nella vita sono pochissime». Guardo Gian Carlo Ferretti e mi chiedo come lo avrebbe descritto Italo Svevo, il primo (se non l’unico) a raccontare con impareggiabile maestria il proprio garbuglio psichico.
È curioso.
«Cosa è curioso?».
Lei che sembra così ordinato, meticoloso, che vive in questa grande casa milanese che la rispecchia per la precisa disposizione delle cose, lei che si è occupato di mercato editoriale fornendo cifre e grafici, oltreché pensieri e intuizioni, è curioso che sia stato minacciato da un’oscura nevrosi.
«Minacciato mi pare eccessivo. Un amico psicologo definì la mia nevrosi “anancastica”. Colpisce i soggetti malati di perfezionismo, ossessionati da certe azioni coatte come ad esempio assicurarsi decine di volte che una porta è stata chiusa o un interruttore spento, disporsi con scrupolo pedantesco all’eseguire una certo compito come fosse un rituale. È un rapporto strano con il proprio ambiente. Il soggetto anancastico si assicura di avere sotto il proprio totale controllo l’ambiente in cui vive. Da qui il ripetere compulsivo di certe azioni come fosse un mantra tranquillizzante».
Ha capito da dove le proveniva?
«Insicurezza, fragilità? Non lo so. Ma so che da giovane davanti al pericolo immediato mi sentivo determinato e pronto per affrontarlo, mentre avvertivo un’ansia crescente per i pericoli futuri; qualcosa di imprecisato che avrebbe potuto minacciare me o la mia famiglia.
Quell’ansia divenne col tempo una nevrosi con la quale ho convissuto. E mi spingo a dire che quella meticolosità ossessiva mi ha, in un certo senso, aiutato nel lavoro di storico dell’editoria».
Quarant’anni fa uscì “Il mercato editoriale”, quel libro fu allora una novità.
«Una novità scandalosa a detta di alcuni critici letterari. Analizzavo la produzione editoriale e tutto quello che di extra-letterario ruota intorno al libro. A quel tempo la critica era tutta ricompresa nello scontro tra crociani e anti-crociani o sui nuovi venuti: strutturalisti, fenomenologi, esistenzialisti e marxisti. Tutti parlavano del testo e nessuno di come quel testo era stato prodotto. Analizzare un libro come frutto di una strategia editoriale era allora considerato un’inutile e penosa stravaganza. E questo la dice lunga sulla figura del letterato italiano».
In fondo poteva essere quello il suo destino.
«Chissà, mi sono laureato a Pisa in letteratura con una tesi su Vincenzo Monti, sono stato allievo di Luigi Russo. Ricordo che tra i compagni di corso c’erano Mario Spagnol e Pietro Citati. Insomma mi predisponevo per una dignitosa carriera letteraria. Cosa, per altro, che in parte ho fatto. Però mi annoiavo. Ero attratto dal giornalismo. E quando lo dissi a Russo, che immaginava per me traguardi universitari, si infuriò. Ero confuso e ansioso. Andai a Roma senza combinare niente. Ma almeno cominciai a conoscere l’ambiente dei letterati: Giorgio Bassani, Cesare Garboli. Infine nel maggio del 1953 mi trasferii a Milano».
Le sembrò una città all’altezza delle sue aspirazioni?
«Senz’altro più di Roma, dove regnava quella svagata rassegnazione di chi nella vita ha visto tutto. No, Milano era una fucina di novità. Vivevo in una camera ammobiliata, mangiavo in una piccola trattoria a prezzo fisso: 400 lire vino escluso. Era in una specie di casbah milanese frequentata da bottegai, piccoli contrabbandieri, prostitute, ambulanti e intellettuali come me arrivati dalla provincia».
Chi ricorda?
«Era una fauna ricca, vorace, disperata e a volte spiritosa. Li rammento in ordine sparso: Valerio Riva, Elio Pagliarani, Giancarlo Fusco, Carlo Castellaneta, Ugo Mulas, Mario Dondero, Luciano Bianciardi. Un gruppo che gravitava tra Brera, il bar Giamaica e piazza Cavour dove c’era il palazzo dei giornali. Alcuni erano già redattori; altri, come me, cercavano una qualche collaborazione. Trovai occupazione al Calendario del popolo».
Era una rivista del Pci.
«Fu fondata nel 1945, io ci lavorai per un paio d’anni per poi passare all’Unità. C’era ancora la doppia direzione: Pietro Ingrao a Roma e Davide Lajolo a Milano. Poi nel 1962 arrivò Mario Alicata che riunì le due direzioni».
Fu un modo per il Pci di ristabilire l’ortodossia culturale.
«Mario Alicata era un uomo complesso e soprattutto colto. Ma guai a deviare dalla strada maestra. Ricordo i sui attacchi furiosi contro Galvano della Volpe in odore di eresia filosofica. È curioso».
Cosa?
«Tutto quello che di normativo Alicata metteva nel suo impegno col partito, spariva nella vita privata. Era iscritto a un circolo del tiro con l’arco; aveva due famiglie e poi si spettegolò sulla sua morte. Fu trovato esanime nel letto di una signora. Il medico di Togliatti, constatata la fine, riunì il gruppo dirigente perché fosse presa la decisione di rimuovere la salma da quel letto malandrino e collocarla nel suo studio. Qualcuno ironizzò circa gli effetti letali della sua avventura sentimentale, altri si convinsero che Mario poteva morire solo assolvendo i compiti intellettuali ai quali si era da sempre votato: seduto davanti alla sua scrivania. Dopo l’Unità passai a Rinascita. Ero meno esposto ai venti dell’ortodossia. Fu un periodo bello. Milano offriva molte occasioni».
Chi vedeva?
«Frequentavo l’ambiente che avrebbe reso leggendaria la città di quegli anni. Divenni amico di Mulas. Incontravo spesso, nei bar tra via della Spiga e via Montenapoleone, Giancarlo Fusco venuto al Giorno dalla Versilia; e poi Luciano Della Mea, un uomo dolcissimo e intellettualmente rigoroso. Una forte amicizia si creò con Luciano Bianciardi. Ogni tanto andavamo in qualche osteria a bere e a chiacchierare con le nostre compagne. Lavorava soprattutto come traduttore. Era umorale: passava dall’euforia alla depressione in un attimo. Certe volte scoppiava in pianto».
Capace di scrivere però “La vita agra”.
«Libro bellissimo. Luciano non si capacitò del successo che ebbe. Anzi se ne rammaricò perché pensava che in quell’affermazione si nascondesse l’irresistibile sirena del capitalismo. Ma come: io lo critico ferocemente e il mercato mi premia col successo? Si sentiva a disagio quando veniva accolto nei salotti: mi vedono come una tigre da esibire, diceva sconfortato. Vidi Luciano un’ultima volta prima della sua morte. Ci incontrammo per caso sotto la galleria Manzoni. Mi accompagnò alla metropolitana. Nel breve tratto, traballante e avvinghiato al mio braccio, mormorava cose oscene, non capivo con chi ce l’avesse. Lo salutai con un’enorme tristezza nel cuore».
Ha conosciuto anche Vittorini?
«Non personalmente, anche se con lui ebbi qualche scambio epistolare e ci sentimmo telefonicamente. Lo vidi una sera a una cena in piedi in casa di Alberto Mondadori e andai in seguito a fargli visita in ospedale. Era malato di cancro e non mi riconobbe. Cominciai a interessarmi a lui dopo la morte nel 1966. Fu uno dei primi esempi di intellettuale, scrittore e editore. Anni dopo scrissi un libro sui grandi rifiuti editoriali e inserii la vicenda di Vittorini e Il Gattopardo».
Come andò realmente quella storia?
«Non come è stata raccontata. Si è addossata a lui la responsabilità del rifiuto. In realtà quando Vittorini lesse il manoscritto propose a Mondadori di pubblicarlo. E la casa editrice si rifiutò. Quanto a lui ritenne che il romanzo di Tomasi di Lampedusa fosse inadatto a comparire nella collana i Gettoni che lui dirigeva per l’Einaudi. Lo respinse non perché non ne avesse intuito la grandezza letteraria ma per coerenza intellettuale con ciò che faceva. Credo abbia saputo trasmettere qualcosa che va al di là del romanzo».
Cosa esattamente?
«Il significato del lavoro culturale che si fa in concreto, sporcandosi le mani e anche sbagliando. Come lui e prima di lui Pavese e poi Calvino, Vittorio Sereni e Paolo Volponi di cui sono stato molto amico e perfino Fortini di cui era impossibile diventare amico».
Perché?
«Perché aveva la vocazione della Cassandra. Tanto sgradevole quanto lucida. Trasmetteva una carica di scontento critico che lasciava sgomenti. Credo fosse incapace di vivere una dimensione realmente umana. Anche se era un uomo coltissimo e intelligentissimo.
Non so se abbia mai avuto degli amici. Forse Cesare Cases. Perché, oltre all’amore per la cultura tedesca, condividevano la stessa ideologia».
A proposito di ideologia, lei lascia il Pci quando?
«Non lo lascio, me ne vado da Rinascita. Lavoro per alcuni anni per una rivista medica e poi seguo da Milano la casa editrice del Pci: gli Editori Riuniti. Sono rimasto lì per otto anni fino al 1984. Ed è stata una bellissima esperienza con persone notevoli che presero a collaborarvi, come Eva Cantarella e Serena Vitale, Luca Canali e Roberto Roversi. Andai a Mosca per incontrare il fisico Bruno Pontecorvo e Viktor Šklovskij, un vecchio straordinario che mi interrogò sulle mie conoscenze della letteratura russa. Non avendone gli parlai di un mio lontano incontro con Anna Achmatova».
Dove vide la poetessa?
«A Roma, nel 1964, venne per ricevere un premio. Ed era un evento perché l’avevano fatta uscire dall’Unione Sovietica. Dovevo intervistarla e mi ricevette in albergo. Lasciò passare più di un’ora prima di comparire nel salottino privato. Si era sottoposta a una lunga toilette. Apparve maestosa e truccatissima. Non c’era nulla della sofferenza che immaginai avesse dovuto patire sotto il regime staliniano. Mi colpì il rosa shocking delle sue unghie. Pensai a quanto era stata bella questa donna ritratta da Modigliani e alle numerose storie sentimentali che le venivano attribuite, tra cui una con Isaiah Berlin. Mi parlò dell’amore per l’Italia e per Dante. Recitava un po’ a fatica perché il cuore, mi disse, non batteva più come una volta. Anna morì per una crisi cardiaca nel 1966. Šklovskij disse che la sua poesia fu come una striscia di luce in una stanza buia».
È un modo per trasformare la fragilità della vita nella forza di un verso.
«È qualcosa di miracoloso che richiede ascolto sia in chi scrive e in chi legge. È raro perciò che un poeta abbia successo, e che scriva un bestseller».
A proposito, lei scrisse un libro sul bestseller all’italiana.
«Fu un libro che analizzava le fortune del romanzo medio di qualità, partendo da due indiscutibili successi: Il nome della rosa e Se una notte d’inverno un viaggiatore. Mi pareva che, sia pure in modo diverso, Eco e Calvino avessero svecchiato la formula di un genere che vedeva in Cassola, Chiara, Arpino, Castellaneta e altri ovviamente, il punto di riferimento per un pubblico di lettori tradizionali».
Ha idea di chi sia oggi il lettore tipo?
«È una figura meno prevedibile e più sbrigativa che in passato. Si abbevera a diversi pozzi, alcuni dei quali inquinati. Ma i libri continuano a essere pubblicati. Sono mutati gli equilibri tra grandi, medie e piccole case editrici e c’è, credo, meno lavoro collettivo. E soprattutto si palesa il dramma delle librerie. Però il libro sopravvive. È già una notizia. Perfino le previsioni catastrofiche, dopo l’ingresso dell’online, sono state smentite. Si naviga a vista almeno fino alla prossima tempesta».