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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

Intervista ad Alessandro Gassmann

Corre lungo l’argine di un fiume. Sente uno schianto, sale sulla strada e raggiunge l’auto distrutta. Ferma l’emorragia alla gamba del guidatore, apre la camicia e scopre la grande svastica tatuata sul petto. Esita, poi toglie il laccio al ferito e lo lascia morire. Quel medico di origine ebrea, Alessandro Gassmann, dovrà fare i conti con la propria coscienza e con i figli della vittima, Sara Serraiocco e Luca Zunik, adolescente contagiato dalle idee neonaziste del padre. Senso di colpa, le cicatrici della storia e perdono sono i temi affrontati da Non odiare, opera prima di Mauro Mancini (prodotta da Mario Mazzarotto con Raicinema, in sala in primavera con Notorious Pictures): «Siamo partiti da un fatto vero», dice il regista, «in Germania un medico si è rifiutato di compiere un’operazione di routine dopo aver visto un simbolo nazista sul paziente. È stato sostituito da un collega ma, ci siamo chiesti, cosa sarebbe successo di fronte a un caso di vita o di morte?». L’incontro con il protagonista del film è in una saletta montaggio a Testaccio. Gassmann, dolorante per un intervento al dente del giudizio, non ha voluto rimandare l’appuntamento.

Tiene molto a questo film.
«Tra poco compio 55 anni, ho iniziato che ne avevo 19. La mia vita è trascorsa invecchiando con i personaggi che, man mano, mi sono stati offerti. Magari perché gli autori erano distratti dalla popolarità di un bell’uomo che piace alle donne ed è spesso utilizzato dalla commedia - a volte bene, a volte malissimo - ma l’occasione di fare un personaggio come questo mi era capitato solo con Il bagno turco di Ferzan Ozpetek e con I nostri ragazzi di Ivano De Matteo. Ogni volta a fine set pensavo: “Perché non ho fatto solo questo nella mia vita?”. Perché questi ruoli non mi sono stati offerti. C’è in me una forma di chiusura, timidezza, che ho camuffato bene nella carriera e che ora metto al servizio di questa storia».
Cosa l’ha colpita della sceneggiatura?
«Ho avuto subito voglia di esserci dentro. Era una storia bellissima, e poi, questa è una motivazione importante, ho anche origini ebraiche. Seguo attivamente la vita politica e sociale di questo paese, credo che questo film possa accendere una lampadina sul tema dell’educazione all’odio. Affronta il senso di colpa, il lascito che fanno i padri ai figli, l’odio tramandato, purtroppo, quasi geneticamente.
Abbiamo lavorato sull’infezione, là dove fa male. È l’unico modo.
Quando tornano paura e violenza, tentativi di sopraffazione, penso che i buoni debbano fare la loro parte.
Non credo che ci siano le condizioni per il ritorno di un totalitarismo con le sue abominevoli leggi razziali. Ma che, nel concreto, possano esservi persone di serie a e di serie b, con una diversa libertà quotidiana. Da cittadino ho il dovere di fare qualcosa, sono contento se attraverso il mio lavoro. Di recente c’è stato un politico che non sapeva che Gesù fosse ebreo: per fare politica bisogna essere preparati, magari avere una laurea umanistica.
Non basta urlare, senza ascoltare gli altri, “onestà” e “popolo”».
Il film le ha fatto ripensare alle sue origini ebraiche?
«Mi ha permesso di aprire dei piccoli file che avevo chiuso. Non sono ebreo, lo era la madre di mio padre.
Due delle nostre zie ebree di Pisa sono state deportate e uccise perché insegnanti, quindi doppiamente pericolose. Mio nonno tedesco, ingegnere antisismico, e un suo amico decisero di venire in Italia a cercare moglie. Attraversarono le Alpi a piedi e finirono a Genova, dove incontrarono per caso mio nonno in un bar. Lui era medico, li invitò nello studio per curare i loro piedi piagati dal viaggio, poi a cena. I due ne hanno sposato le due figlie.
Dall’amore tra mio nonno e mia nonna sono nati papà e mia zia».
Suo padre parlava della storia di famiglia?
«Non gli piaceva parlare delle sue origini. Durante il regime fascista, a sedici anni, si era salvato solo perché era nella nazionale di pallacanestro.
Questo periodo di terrore se lo è portato appresso tutta la vita.
Quando mia sorella Vittoria, figlia di Shelley Winters, che era ebrea, si è spostata con rito ebraico a New York mio padre è andato al matrimonio e per la prima volta in vita sua ha dovuto rimettere la kippah. Ma non lo fece volentieri».
Neanche sua nonna ne parlava?
«No, era chiusa, severa. Era alta un metro e cinquanta, gli occhi neri bellissimi, aveva sposato un omone di oltre due metri. Una piccola donna potente che manovrava le persone. Lei avrebbe voluto diventare attrice e ha costretto mio padre, che avrebbe preferito fare l’avvocato. Non sorrideva mai, nonna, non ne aveva tanti motivi.
Alla morte del nonno è rimasta senza soldi con due figli adolescenti, ebrea senza lavoro a Roma. Si è messa a fare l’insegnante elementare, ma le ristrettezze economiche e la paura di essere deportata hanno tormentato lei e mio padre».
Suo padre questo passato se lo è
portato sempre dentro?
«Sì. Credo abbia contribuito a produrre quelle paure che si sono ripresentate alla fine della sua vita sotto forma di depressione. Il suo male oscuro aveva a che fare con la paura di morire povero. Anche se nel suo spegnere sempre le luci c’era più l’idea di non dare nell’occhio, con cui era cresciuto».
Parlavate di religione?
«No. Lui non era credente, non si è mai convertito né è andato verso la religione ebraica. Verso la fine della sua vita ha cercato una sua fede, è andato a leggere le preghiere in Piazza San Pietro con papa Wojtyla: gli piaceva, gli aveva dato non dico una fede, ma il modo di avere meno paura dell’avvicinarsi della fine della vita. Non sono un credente e un po’ lo invidio: spero di riuscire anch’io prima o poi a credere, ad essere più speranzoso».
Il pregiudizio ha grandi e piccole facce. Lei ne è mai stato oggetto?
«Spesso sono colpito da pregiudizi positivi. Questo paese mi irrita perché mi rendo conto che da personaggio pubblico e riconoscibile, negli ultimi anni utilizzabile soprattutto per i selfie, traggo vantaggi. È un paese in cui la sudditanza al potere e alla notorietà è più evidente, da sempre, che in altri paesi. Mi è capitato di fare un’infrazione con l’auto, il vigile arriva, mi riconosce, sorride: “Gassmann, stavolta passa”».
Mai pensato di dire: voglio pagare la multa?
«Mai detto, in effetti».
L’etichetta da figlio d’arte avrà pesato, all’inizio.
«Sono stato oggetto di pregiudizi evidenti, che però non hanno inficiato il lavoro e la vita. Ma dal mondo del cinema sono visto in modo strano, non ho costruito la carriera lavorando con i grandi autori».
Sorrentino, Garrone, Martone, Martone, Virzì?
«Mai stato neanche provinato, anche se li ammiro tantissimo. Forse la mia popolarità evidente può dare fastidio, non so. Senza puzza sotto il naso ho fatto commedie basse che hanno incassato e mi hanno dato la possibilità, anche a teatro, di scelte più difficili. Sono anche uno dei pochi attori che non frequenta colleghi fuori dal set: non so mai di cosa parlano, quali locali, quali anteprime? Un po’ mi dispiace: perché loro hanno voglia di vedersi e a me manco mi cagano? Chiudendo il discorso sul cinema italiano: penso che quello d’autore magari non mi guarda con snobismo, ma non considera la mia figura abbastanza intellettuale. Forse perché mi imbarazzerebbe mettere in campo le mie conoscenze, che a mio modestissimo parere sono maggiori delle loro. Mi imbarazzo come avrebbero fatto mio padre o Flaiano: preferisco essere considerato un po’ più terra terra, goliardico. Osservare tutto ciò con un minimo di distacco e un po’ di senso del ridicolo».