Robinson, 25 gennaio 2020
8QQAFM10 L’inventario di Judith Schalansky
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Una delle più belle poesie di Elizabeth Bishop racconta “L’arte di perdere”. L’unica che si impara facilmente. «Perdi qualcosa ogni giorno» suggerisce, mentre vanta i traguardi raggiunti: «ho perso due città proprio graziose/ ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente».
Lo spirito di Elizabeth Bishop accompagna Inventario di alcune cose perdute, ultimo libro di Judith Schalansky che conquistò il nostro cuore con Atlante delle isole remote. Il fascino non stava nella lontananza, né nella geografia. Incantava il perentorio sottotitolo: Cinquanta isole dove non sono mai stata e mai andrò.
Le cronache, i diari di viaggio, i racconti dei naufraghi e le leggende danno più soddisfazione di uno scoglio in mezzo al mare.
Dodici sono le cose perdute e inventariate, senza vincoli merceologici. Tigri di paglia, edifici, poesie, attrici, unicorni, mappe lunari, quadri, un giardino-enciclopedia. Dodici racconti introdotti da altrettante fotografie stampate nero su nero, a malapena visibili. Classe 1980, nata nella Ddr, Judith Schalansky scrive alla maniera di W. G. Sebald, che aveva tracciato la strada con Storia naturale della distruzione. Una felice combinazione di saggio e autobiografia, curiosità e sapienza narrativa, gusto e attenzione al dettaglio. Utile e confortevole rifugio quando i romanzieri smettono di inventare storie per darsi alle private confessioni.
Daisy Miller – nel racconto di Henry James con lo stesso titolo – muore per aver visitato di notte il Colosseo: «L’aria di epoche antiche abitava quel luogo, ma l’aria di epoche antiche, se freddamente analizzata, non era altro che un diabolico miasma». ( Le signorine americane dei suoi romanzi si fanno sempre male, in Europa: Daisy è particolarmente sfortunata).Le rovine e i miasmi – di due secoli prima – occupano il capitolo che Judith Schalansky dedica a Villa Sacchetti, edificata a metà del Seicento e già mezza distrutta prima che il secolo finisse. A Roma era scoppiata la peste, i cadaveri venivano seppelliti fuori dalle mura e il luogo scelto – chiamato la Valle dell’Inferno – non prometteva bene. Guest star, Giovanni Battista Piranesi, che preferiva la compagnia delle pietre a quella degli uomini: «Le rovine gli parlano, gli tolgono la serenità e il riposo». Viene raccontato come un vampiro, o un ladro di cadaveri: va in giro di notte, brucia la sterpaglia per scacciare serpenti e scorpioni, scava per restituire al mondo piedistalli e sarcofagi. Architetto di formazione, non costruisce nulla. Le sue incisioni che celebrano le antiche pietre creano una moda. E danno origine a un redditizio commercio di rovine finte.
Anche la Francia aveva il suo pittore di macerie e disastri: Hubert Robert, detto Robert des Ruines. Da studente a Roma bussa alla porta dell’irascibile Piranesi per confessargli «Adoro le rovine come lei», poi disegna Villa Sacchetti mezza diroccata. Tornato a Parigi, dipinge gli incendi all’ospizio dei poveri e al Teatro dell’Opera, la presa della Bastiglia e la distruzione delle tombe reali. Sopravvissuto al repulisti rivoluzionario – teneva una piccola ghigliottina come monito, gli portò fortuna – progettò il Museo del Louvre. E subito, forza dell’abitudine, lo dipinse in rovina: la nuvole invece del tetto, le statue a terra, l’erba già rigogliosa sulle pietre. Le storie di edifici sono le più interessanti, per la lotta tra conservazione e rinnovamento ( chi le preferisce, troverà nell’Inventario curiose storie naturali o esotiche). Ricordano che gli antichi prendevano il materiale da costruzione dove lo trovavano, senza troppi riguardi. E costruivano chiese incorporando colonne greche.
Sapevamo delle poesie scomparse di Saffo e di Greta Garbo che sparisce dalle scene: Judith Schalansky rende tutto nuovo e originale, cambiando il punto di vista. C’è spazio per qualche personale disavventura: ritirata in un eremo sulle Alpi per scrivere un libro sui mostri, rimane delusa per la scarsa varietà. Che noia, sempre la fenice che risorge, la sfinge interrogante, i draghi dall’alito pestilenziale, il basilisco che uccide con lo sguardo. Dopo qualche notte in preda agli incubi, scopre che passeggiando nei boschi ha toccato un lichene micidiale per il sistema nervoso.
Nel suo giardino enciclopedico, Armand Schultess non classificava mostri ma l’intero sapere umano. Raccoglieva definizioni, liste, riferimenti bibliografici sui temi più vari, e li incideva su pezzi di metallo da appendere agli alberi della sua proprietà, in una piccola valle del Canton Ticino. Poco lontano passava le sue vacanze Max Frisch, che certamente ha preso Schultess a modello per il romanzo L’uomo nell’Olocene. Solo e malconcio in una casa isolata dalla frana, il signor Geiser appiccica foglietti sui mobili di casa, per ricordare i fondamentali della scienza e della storia. Come Aureliano Buendía, che in Cent’anni di solitudine scrive “mucca” sulle mucche ( a Macondo prima son tutti insonni, poi dimenticano i nomi). I romanzi di Gabriel García Marquez e di Frisch resteranno, il giardino di Armand Schultess non esiste più: nel 1973 gli eredi hanno sgombrato il terreno e buttato il pattume. Anche – racconta Judith Schalansky – decine di libretti artigianali, tutti su faccende di sesso.