Quello scelto da Baricco non è il ribelle, ma l’adolescente innamorato della vita, talmente innamorato da rimanere perennemente deluso. « Soffro della sua stessa sindrome » , dice lo scrittore più salingeriano che abbiamo, mentre si aggira tra i corridoi colorati di questa università creativa che occupa l’edificio di un vecchio arsenale e ha sui muri il motto con cui finisce Il giovane Holden: « It’s funny. Don’t ever tell anybody anything. If you do, you start missing everybody » . Tradotto: « È strano. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque».
Quando è entrato Salinger nella sua vita?
«Tardi, avrò avuto vent’anni. La mia generazione amava più la letteratura mitteleuropea che gli americani. Non ricordo neppure chi me lo ha messo in mano, ci sarò finito per inerzia. Prima o poi si finisce davanti al Giovane Holden. Ma solo dopo qualche tempo è diventato uno dei miei libri preferiti. Sentivo che avevamo molte cose in comune».
Difficile immaginarla nei panni di un ribelle.
«Forse sono più simile al fratello di Holden, quello che va a Hollywood e diventa un fessacchiotto».
Agli occhi di Holden il fratello ha scelto di “sputtanarsi”, si è messo a scrivere per il cinema e si è comprato una Jaguar.
Baricco scherza, è abituato a sentirsi rinfacciare il successo e si schermisce.
«In realtà sono meno organico di quanto sembri ( ride). Come Holden sento lo scarto tra me e il mondo, e come lui non mi riconosco completamente in nulla. Mi colpisce la sua passione verso le cose.
Eccessiva, superiore alla norma. Holden riesce a cogliere la bellezza accecante dentro la vita, non vuole perdere neanche un grammo della pienezza del vivente. Ha fame di tutto. Fin dall’inizio ho capito che in questo mi assomigliava».
È però diventato un simbolo dell’insofferenza giovanile alle regole.
«Forse è stato così per i ragazzi del Sessantotto, non per me. Non mi interessava il suo essere “contro”, ma la sua capacità di dare senso e bellezza alle cose. È lì che Holden è un angelo. Trovo irresistibile il suo aspetto costruttivo, luminoso. È uno che vede l’arcobaleno in una pozzanghera e te lo cita come uno scrigno in cui è custodita una verità».
In verità sta male, dice in continuazione di essere depresso.
«Perché è troppo esigente, per cui tutto gli sembra deludente: la scuola, i suoi amici, lo sport. È un puro, uno estremo, ha un’attesa altissima nei confronti della vita.
Le cose in cui trova la pienezza sono limitate. A parte la sua sorellina Phoebe, niente lo soddisfa».
Cosa ha Phoebe che il mondo non ha?
«A un certo punto lo inchioda. Sono soli nella sua stanza, Holden si è intrufolato lì di nascosto. Lei lo ascolta lamentarsi e poi gli chiede: ma c’è qualcosa che ti piaccia fare? Phoebe è una bastarda, lo costringe a scegliere. Quella sì che è una domanda scomoda. Una domanda che sarà fastidiosa per un’intera generazione, quella del Sessantotto. Holden è costretto a tirare fuori la risposta».
Dice che vorrebbe fare il “catcher in the rye”, sceglie di acchiappare bambini in un campo di segale. Non è una risposta pazzesca, un po’ elusiva?
«I bambini nei libri di Salinger rappresentano l’incantesimo, placano la sete d’infinito. In loro c’è un misto di innocenza e erotismo. Accade con Phoebe, ma anche altre volte. Si pensi all’incontro tra il soldato e la piccola Sybil nel racconto Un giorno ideale per i pescibanana: si crea una complicità unica tra l’adulto sofferente e il bambino strafottente».
Salinger affronterà la sua insofferenza isolandosi, infastidito da quello stesso successo che aveva a lungo inseguito.
«Era un control freak, un maniaco del controllo, un perfezionista. Aveva un’aspettativa enorme su se stesso. Il fatto che abbia smesso di pubblicare la dice lunga. Piantava grane su tutto, fu lui a volere la copertina bianca del Giovane Holden e per anni è stato difficile ritradurre il libro, bisognava chiedergli il permesso e puntualmente lo negava ( la prima traduzione di Adriana Motti per Einaudi è del 1961, ndr) ».
È vero che lei stesso si era proposto agli editori per fare una nuova traduzione?
«Non ero solo, con me c’erano altri della scuola, tra cui Sandro Veronesi».
Le piace quella curata da Matteo Colombo?
«Bellissima, necessaria. Non potevano reggere espressioni come “vattelapesca”.
Forse però, lo dico a malincuore, il successo del romanzo è destinato a sfumare, non è detto che ce lo teniamo per altri cinquant’anni. Holden è spiritoso, ma una generazione cresciuta con I Simpson, I Griffin e American Dad, può essere colpita dall’umorismo irriverente di Holden?».
Non è strano che un autore capace di grande ironia si prendesse così sul serio?
«Sulle questioni tecniche doveva essere molto noioso. La sua narrativa presupponeva un lavorio millimetrico».
La scrittura è riducibile a una tecnica?
«Nel caso di Salinger è necessaria. Ci sono scrittori meno tecnici, tipo Conrad, le cui frasi sono un po’ troppo lunghe, troppo corte, troppo grasse, troppo calde. Ma Salinger non è così».
Che ruolo ha avuto quel suo modo di scrivere che mima la spontaneità del parlato nella letteratura del Novecento?
«Ha cambiato la storia artigiana del mio mestiere. C’è un filo teso che sta tra Viaggio al termine della notte di Céline e Il giovane Holden. Sono due libri con una voce narrante in soggettiva, due libri parlati.
Hanno spalancato una porta nel sapere letterario, lasciando passare qualcosa di animale, qualcosa di apparentemente meno artificiale, meno finto. Il punto interessante è che questa naturalezza era ottenuta attraverso una grandissima sapienza tecnica. Come nel cinema: il massimo dell’effetto naturale con il massimo dell’artificio. Frasi liquide, veloci, con cui ti sintonizzi facilmente. Forse sarà questo aspetto a preservare Holden dall’usura del tempo».
Piaceva a Italo Calvino per la sua leggerezza?
«Credo che entrambi guardassero verso lo stesso punto, pur arrivandoci in maniera diversa: Salinger col corpo, Calvino col movimento intellettuale. Per Salinger la leggerezza è una cosa bella, per Calvino una cosa giusta. Salinger è istinto, fisicità, ma per esserlo deve lavorare molto, nascondere la fatica che c’è sotto. La sua prodezza è portare tutto a galla. Appena tu vai giù, lui ti tira su. Mentre sta cazzeggiando portandoti in giro come un cane, intuisci che ha in serbo qualcosa di forte. E a un certo punto strack, ti dà lo strattone, e fai appena in tempo a vedere un lampo che poi sparisce di nuovo e riprende a cazzeggiare. È un continuo girare in superficie aspettando che qualcosa salga».
A volte però affiorano fatti tremendi come la morte dell’altro fratello, Allie, per leucemia. Holden spacca i vetri a pugni per la rabbia.
«Ma poi tutto torna a muoversi. Anche le cose serie hanno una permanenza breve, non superano le sette righe».
È una velocità che anticipa quella dei social network?
«Salinger è davvero molto avanti, intuisce la leggerezza sublime del Game, dice addio alla profondità».
“Dove vanno le anatre quando il lago gela?”. Holden continua a chiederlo in giro, a chiunque, perfino al tassista. È una domanda filosofica che finge di essere leggera o non vuol dire niente?
«È una genialata, galleggia a filo d’acqua, come le anatre. È la domanda di chi vede nel mondo quello che gli altri non vedono.
Le anatre incarneranno per sempre quella persona su cento che cerca nel mondo l’invisibile e si fa la domanda che gli altri non si fanno».