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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

12QQAFA10 Biografia di J.D. Salinger

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Quando Jerome David Salinger morì, dieci anni fa, nessuno dei misteri che avevano accompagnato l’esistenza dello scrittore più amato al mondo nella seconda metà del Novecento ( vabbè: mettiamoci un forse…) venne svelato. Nessun testamento pubblico, nessun romanzo pronto per essere pubblicato, nessun segreto. Salinger morì a Cornish, New Hampshire, a 91 anni, nella modesta casa sulle colline in cui si era “volontariamente recluso” nel 1953, 47 anni prima. Dal 1965 non aveva più pubblicato una riga e anzi, aveva schierato uno stuolo di avvocati per impedire che venissero tirati fuori suoi scritti giovanili, lettere private, fotografie, che dalle sue opere venissero tratte commedie, musical, drammi e soprattutto che Hollywood stesse lontano dalla sua letteratura.
Ebbe un matrimonio, due figli e un rapido divorzio; poi, tre altre storie paraconiugali, ma brevi. Dal 1988 era sposato con Colleen O’Neill, un’infermiera ricamatrice di quilt, di quarant’anni più giovane, di cui non esiste una dichiarazione, tantomeno un’intervista o un ritratto. In sostanza Holden Caulfield – l’Adamo americano che Salinger aveva modellato con la creta – era morto come aveva sognato di fare da adolescente: in una capanna al limitare di un bosco, lontano dal mondo, o meglio dal “genere umano”. Lo scrittore non era riuscito a staccarsi dal suo personaggio, o era stato il suo personaggio ad averlo chiuso in una casa in campagna perché non si staccasse da lui? Mistero, che ha alimentato un mito letterario fiabesco e senza fine.
Anche l’inizio è decisamente straordinario. Tutto inizia nel 1951, quando a New York viene pubblicato il romanzo di un giovane scrittore, che si è fatto apprezzare per alcuni racconti molto brevi pubblicati dalla rivista The New Yorker. Siamo ad appena sei anni dalla fine vittoriosa della guerra, il generale Eisenhower è il presidente della bomba atomica, la best generation si celebra con i machisti Ernest Hemingway e Norman Mailer. In questo clima conformista ( Kerouac e Capote sono ancora due puntini all’orizzonte) prende il largo questo libretto dal titolo enigmatico: The Catcher in the Rye,letteralmente “Il Prenditore ( termine del baseball) nel campo di segale”, protagonista un ragazzo ricco bocciato a scuola, che vaga per tre giorni in una Manhattan piena di phonies, gente ipocrita e fasulla, prima di tornare a casa. Si chiama Holden Caulfield, ha diciassette anni (e «se proprio volete saperlo: sono ancora vergine»), è un loser, ma buffo e irresistibile. Il titolo deriva dalla scena madre del racconto, quando la sorellina Phoebe – dieci anni, simbolo dell’innocenza e della saggezza – gli chiede cosa vuol fare nella vita, e Holden si immagina migliaia di ragazzini che giocano, irresponsabilmente, in un campo di segale senza sapere che confina con «un dirupo pazzesco» (“some crazy cliff”); ma per fortuna c’è lui, Holden, l’unico adulto, che si incarica di prenderli al volo. La missione di un improbabile Salvator Mundi, che non piacque ai critici, né all’establishment, né alle chiese. Innanzitutto per il linguaggio: comitati di inflessibili genitori immediatamente ottennero di vietare il libro nelle biblioteche scolastiche, avendo contato 237 goddam, 58bastard, 31 Chrissakes e soprattutto una terribile scoreggia mollata da uno studente mentre il preside ha riunito la scuola per fare una ramanzina sui Doveri. Insomma, Holden è un ribelle, è un asociale, un nuovo Huckleberry Finn; Holden non crede nello shopping, nell’esercito, nella carriera, nel matrimonio: non sarà mica un comunista? Non c’era pericolo, Holden non piaceva nemmeno ai marxisti: troppo intimista, troppo borghese; nel libro non ci sono poveri che prendono coscienza, non ci sono schiavi nelle piantagioni, non c’è l’alienazione capitalistica. Tutto vero, per carità: ma allora come spiegare il successo straordinario che il libro ebbe? Si trattava, prima di tutto, di un miracolo letterario: Salinger ( un autodidatta) aveva innovato il realismo americano, reinventando e dilatando l’uso del dialogo, democratizzando il gergo, dando alla storia un ritmo musicale in un sense of humorasciutto alla Mark Twain e Ring Lardner; c’è molto jazz nel tragitto in taxi con Horowits lo scorbutico, c’è molto Hopper in Maurice il ruffiano davanti all’ascensore. Woody Allen, Philip Roth, Don DeLillo si occuperanno di tenere alto il mito letterario di una New York che Holden aveva attraversato come un Gran Visir in incognito.
Ma, soprattutto, Holden è simpatico. Anna Freud, la figlia di Sigmund che lavorò decenni come psicoanalista tra gli adolescenti, rivelò, con una punta di rammarico, che Holden era la persona che i suoi giovani pazienti indicavano più spesso come l’amico ideale. (Anche a lei era simpatico, anche se trovava in lui tracce di tendenze autoassolutorie e narcisistiche; ma, si sa, i Freud cercano sempre il pelo nell’uovo). Si scoprì che 13 anni era l’età in cui si legge ilCatcher, che era il più vietato, ma anche il più richiesto nelle biblioteche, e il più rubato nelle librerie.
Anno dopo anno, prima in America, poi gradualmente in tutto il mondo (in Italia e in Urss, per esempio, arrivò nel 1961), Holden Caulfield divenne così il simbolo dell’adolescenza, o meglio del doloroso passaggio dall’adolescenza ad una età adulta, che peraltro il protagonista non ci teneva affatto a conquistare. E qui la storia dell’autore e del suo eroe di carta cominciano a fondersi e il mito a prendere forma; J. D. Salinger, all’apice del suo successo (anche commerciale, il libro vende milioni di copie), fa semplicemente quello che Holden avrebbe voluto fare: si ritira in campagna, tronca i rapporti con il «mondo materiale», abbraccia, una dopo l’altro, filosofie e religioni orientali, diventa un cultore della macrobiotica e di uno stile di vita frugale; scrive, ma lo fa solo per sé, sottraendosi a tutte le sirene del mercato. Ovvero fa quello che una parte non piccola della gioventù di mezzo mondo fa, spinta dagli orrori di quello che sanno offrire gli adulti occidentali ( Vietnam, divise, plastica, competizione, nevrosi): sceglie un’altra strada, va a vivere in campagna. Chi è vecchio si ricorda: c’era effettivamente qualcosa di holdeniano, nell’aria; ma poi giunse il 1980, anno discriminante in tutto il mondo. A New York, un ragazzo obeso e squilibrato aspettò tutto il giorno John Lennon davanti al famoso Dakota Hotel; al mattino gli chiese un autografo, lo ebbe. La sera, quando lui e Yoko Ono tornarono, gli sparò cinque colpi di pistola alla schiena, poi si sedette sui gradini e prese a leggere il Catcher. Si chiamava Mark Chapman, è ancora in prigione adesso e ha sempre ripetuto che era stato Holden Caulfield ad ordinargli l’omicidio. Il libro, da quel momento, diventò qualcosa di diverso. Salinger, indicato assurdamente come una sorta di mandante ( anche se nel Catcher non c’è mai un incitamento alla violenza), troncò del tutto i suoi legami con il mondo editoriale e culturale, dal quale peraltro non ebbe mai dichiarazioni di simpatia. Nascevano gli anni Ottanta, svaniva un’idea di letteratura artigianale, coraggiosa e ingenua, per far posto al marketing, alla recognition, alla privacy, allo star system, alle creative writing schools. Il decennio si chiuse peggio di come si era aperto, quando l’ayatollah Khomeini diede ordine al suo mezzo miliardo di fedeli di uccidere lo scrittore Salman Rushdie, reo di aver offeso – in un libro! – il profeta Maometto. E quindi, con tali prospettive, anche i giovani smisero di scrivere e di leggere libri in libertà: era un mestiere che cominciava a diventare pericoloso.
Quella strana coppia americana, il ragazzo di carta e il suo silenzioso autore, continuò però ad attirare attenzione e simpatia: i genitori lo passavano ai figli. Il Catcher negli ultimi trent’anni è poi entrato in Asia, diventato oggetto di culto in Cina, decine di università – dalla Malesia all’Australia all’immancabile Iran, in cui Holden è più popolare di Lolita – producono ogni anno centinaia di studi, interpretazioni psiconalatiche, buddiste, filologiche; mentre sforzi, altrettanto imponenti, si sono occupati del mistero del silenzio decennale del suo autore. Quali sono state le vere cause del suo eremitaggio? L’anno scorso il figlio Matt ( esecutore testamentario insieme all’ultima moglie) ha dichiarato che il padre non aveva mai smesso di scrivere e che lui stesso sta ordinando una quantità enorme di materiale, annunciando che ci vorranno anni per venirne a capo. Ha però voluto escludere che tra gli scritti ci sia qualcosa che riguarda “la guerra”. Sarà vero?
Per tutti i salingeriani del mondo, sarebbe bello che non fosse così. Jerome David Salinger venne arruolato nel 1942, giovane aspirante scrittore di buona famiglia, figlio di Sol, un ricco importatore ebreo di carne e formaggi e di Mary, cattolica scozzese, convertita all’ebraismo con il nome di Miriam. Il nostro soldatino sbarcò a Utah Beach nel D-day, sfilò a Parigi liberata, fu presente alla battaglia del Bulge in cui il suo 12esimo fanteria fu decimato, arrivò in Baviera nell’aprile del 1945 e partecipò alla liberazione del campo di sterminio di Dachau, in cui alcuni commilitoni del 12esimo, orripilati da quanto videro, passarono per le armi sul posto alcuni guardiani del campo. Un mese dopo Salinger venne ricoverato nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Norimberga; tornò in America solo nel 1946, dove finì di scrivere il Catcher, in cui la guerra non c’è, e autore, protagonista e città vivono fuori dal tempo. Kenneth Slawenski, l’ultimo e il più informato dei suoi tanti biografi, è convinto che, semplicemente, Salinger si sia “rotto” per lo shock subito, per il senso di colpa, per gli adolescenti cadaveri a Dachau, per l’ipocrisia che sfoggiavano i vincitori. Insomma, non era riuscito a salvare nessuno di quei ragazzini che giocavano sull’orlo del dirupo pazzesco. La sua vita è stata la testimonianza di una indicibile, spaventosa sofferenza, troppo grande per poter essere raccontata. L’aveva intuito William Faulkner, l’unico che aveva salutato l’uscita del Catcher come un evento eccezionale: «Secondo me, la tragedia di Holden non era che non fosse abbastanza forte, o abbastanza coraggioso, o abbastanza meritevole per essere accettato nell’umanità. La sua tragedia è che quando cercò di entrare a far parte della razza umana, lì non c’era nessuna razza umana». Ma Salinger costruì, con i suoi scritti e ancora di più con il suo silenzio, il mito che una razza umana fosse, un tempo, esistita.