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 2020  gennaio 25 Sabato calendario

QQAN10 Giampaolo Pansa ricordato dalla moglie Adele

QQAN10

Signora Adele Grisendi, dove ha conosciuto suo marito, Giampaolo Pansa?
«In treno. Era il 22 novembre 1989. Io stavo andando a Reggio Emilia dai miei genitori, lui a Firenze a presentare un libro. Allora ero una sindacalista della Cgil. Lo fermai perché avevo letto i suoi articoli su Repubblica sulla svolta di Occhetto; quel giorno c’era il comitato centrale del Pci che doveva chiudere la vecchia ditta, volevo sapere come sarebbe andata a finire. Lui aveva appena litigato con Scalfari». 
Perché? 
«Aveva criticato i suoi articoli, troppo favorevoli a Occhetto. Così Giampaolo gli aveva detto: “Alle Botteghe Oscure mandaci qualcun altro”. E se n’era andato. Quel giorno in treno mi parlò per tutto il tempo del viaggio: non solo del Pci ma di sé, della sua famiglia. E mi fece un sacco di domande. Era fatto così, ti investiva con la sua curiosità». 
Chi chiamò per primo? 
«Lui. Due settimane dopo mi telefonò in Cgil a Roma: “È già impegnata a cena? Posso prenotarla per stasera?”». 
E lei? 
«Scoppiai a ridere: non è che avessi tutti questi impegni... Cenammo al ristorante dell’hotel Ambasciatori, dove il giornale gli passava una junior suite. Era la notte di Santa Lucia. Da allora ci siamo visti tutte le sere. E abbiamo cominciato fin da subito a vivere insieme». 
Lei Adele era libera? 
«Sì, ero divorziata da anni e non avevo nessuno. Ma Giampaolo era sposato. La famiglia abitava a Milano, suo figlio Alessandro era ancora single, anche se aveva fissato le nozze per il luglio 1990. Si prospettava un bel pasticcio. Ma non ci fu niente da fare. Ha presente quando apri le finestre, fuori c’è un gran vento, tira la tramontana, e non riesci più a chiuderle? Tu provi, insisti, ma il vento è troppo forte, tiene tutto spalancato, anche contro la tua volontà. Ecco, per entrambi fu impossibile chiudere le finestre». 
Quando lasciò la moglie? 
«Le farò una confidenza che farà arrabbiare le femministe: lui dalla moglie non si è mai separato. E io ho accettato la sua decisione. Non volevo creargli ulteriori problemi. Sapevo che c’erano territori per me vietati; ma sapevo anche che c’erano territori soltanto nostri. Alessandro, il figlio di Giampaolo, la prese male. Ma io ho sempre rispettato “la signora di Milano”, come la chiamavamo; e lei ha sempre rispettato me». 
Vi siete mai incontrate? 
«No. Sentivo la sua voce quando parlava con Giampaolo; e si parlavano spesso, lui non è mai sparito dalla sua vita. Siamo sempre rimaste l’una per l’altra una voce al telefono. Lei è mancata nel novembre 2015. Con Giampaolo ci siamo sposati il 14 gennaio 2016. E il 14 gennaio 2020, nel quarto anniversario di matrimonio, l’ho portato al camposanto». 
Pansa ha dovuto sopravvivere al suo unico figlio. 
«Alessandro è morto nel novembre 2017. Novembre è un mese fatale per la nostra famiglia larga. Fino ad allora, Giampaolo era invecchiato dolcemente, poco a poco. Aveva accettato il declino, senza fare storie, continuando a leggere e a scrivere. La morte di Alessandro fu per lui uno strazio. Lo diceva sempre: “Se non ci fosse Adele, sarei morto”». 
Disse anche: «Se non ci fosse Adele, mi sarei ucciso». 
«Non ha mai accettato la morte del figlio. Reagì rifugiandosi ancora di più nel rapporto con me». 
Nessuno sapeva che Giampaolo Pansa fosse ammalato. 
«Un ostacolo che si sarebbe potuto risolvere facilmente, una diverticolite, si è rivelato insormontabile. Forse doveva operarsi prima. Quando l’ha fatto era tardi. Non si è ripreso, non riusciva più a mangiare. Si è consumato. In questi tre mesi non l’ho lasciato solo un minuto, in ospedale e a casa, di giorno e di notte. Credevo avessimo ancora del tempo. Non ero preparata». 
La morte ha rinfocolato le polemiche. 
«È abbastanza vergognoso insultare una persona che non può più rispondere. Mi chiedo quale umanità portino dentro. Sono cose che qualificano chi le dice. Hanno scritto volgarità: che non sapeva fare il suo lavoro, che scriveva male. Suvvia, come si può dire che Pansa scrivesse male?». 
Molti l’avevano criticato anche da vivo. 
«E lui l’aveva previsto. Non si arrabbiava neppure, dava per scontato che chi reagiva in quel modo non avrebbe potuto avere una reazione diversa. Una cosa del genere, in piccolo, era accaduta anche a me, quando scrissi La famiglia rossa, la mia storia dentro la Cgil. Passai da una rapida ascesa a un capitombolo rovinoso: mi misero in un sottoscala. La mia colpa? Rispettare la componente socialista del sindacato. “Se fossi stata in Unione Sovietica, saresti finita nel gulag. E io con te” mi diceva Giampaolo. È la malattia della sinistra italiana: il furore ideologico». 
Il problema è che della Resistenza molti sanno poco. Anche tra coloro che hanno letto i libri di Pansa, tanti ignorano quello che i «vinti» avevano fatto prima del 25 Aprile. 
«Giampaolo ha sempre detto che la Resistenza era la sua patria morale. Era un uomo di sinistra e si può dire che lo sia rimasto sino alla fine, su posizioni più moderate ma pur sempre democratiche. Non è mai diventato di destra. Non ha mai votato a destra una sola volta in vita sua. Alla fine non andava più a votare perché disprezzava questa classe politica. Compreso Salvini, cui ha dedicato un libro molto critico fin dal titolo: Il dittatore. Ma proprio perché era un uomo di sinistra sentiva il dovere di raccontare tutto quello che era accaduto in Italia durante e dopo la guerra. Guerra civile, come ormai la chiamano quasi tutti. Io so perché nel 2003 è stato fatto Il sangue dei vinti»
Perché? 
«La preparazione era cominciata tre anni prima. Con Giampaolo abbiamo fatto tanti di quei sopralluoghi... Sono tutti scritti nelle sue agende. Ogni weekend andavamo a cercare fonti, pubblicazioni locali, testimoni... L’ha fatto perché a 58 anni dalla Liberazione pensava che fosse venuto il momento, per la sinistra non schiava dell’ideologia, di guardare le cose per come erano accadute. Di passare il Rubicone. Di riconoscere che, accanto alla barbarie dei fascisti, anche una parte dei vincitori aveva commesso delle barbarie. Giampaolo considerava il massimo esempio di barbarie la rapatura delle donne in piazza: la simulazione pubblica di uno stupro. Pensava che fosse venuto il momento. Invece il momento non è venuto. Siamo ancora lì». 
Pansa però incontrò un altro pubblico. 
«Io avevo passato la vita tra gli operai comunisti. Diffidavo di chi stava dall’altra parte. Con Giampaolo ho incontrato impiegati, manager, medici, avvocati e anche operai dell’altra parte; ed era gente come quella che conoscevo bene. Anche nell’ora della sua morte, il mondo dei vinti ci è stato più vicino del suo mondo di prima. Di loro non ho visto e sentito quasi nessuno. Mentre tantissimi dall’altra parte mi hanno espresso solidarietà e gratitudine. E sa perché? Perché Giampaolo aveva dato voce alle loro sofferenze, tenute a lungo nascoste. E il fatto che fosse un uomo di sinistra a riconoscerle, quelle sofferenze, aveva ai loro occhi un particolare valore». 
Cosa pensava davvero Pansa di Craxi? 
«Diceva che si conoscevano da quando lui portava ancora i pantaloni alla zuava e Bettino aveva i capelli. A Roma all’inizio scendeva nello stesso hotel, il Raphael. Andò via perché ogni sera Craxi lo aspettava per lamentarsi di quel che scriveva Repubblica. Ora una rivista ha fatto un parallelo, ha scritto contro “la santificazione di Pansa e Craxi”. Ma è un parallelo che non regge. È vero che sono state entrambe in qualche modo due figure tragiche. Ma uno era un uomo di potere; l’altro era semplicemente un giornalista libero. Giampaolo non ha mai amato quelli che si intascavano “il malloppo”, come lo chiamava lui. Altri hanno scritto che smaniava per fare il direttore. Una menzogna: gli hanno offerto più di una direzione, e ha sempre rifiutato. “Non voglio né ubbidire né comandare” diceva. Voleva semplicemente scrivere quel che pensava». 
E di Bocca cosa pensava? 
«L’ha sempre considerato un maestro. Uno dei suoi maestri professionali. L’aveva conosciuto da ragazzo, a Casale Monferrato. Giampaolo aveva fondato con gli amici un circolo intitolato a Gobetti. Amava raccontare quel primo incontro...». 
«Bocca arrivò su un’auto sportiva, mangiò e bevve come un orco, si informò sulle ragazze più belle, tenne la conferenza e ripartì sgommando nella nebbia verso Milano...». 
«Sì, decisamente non si può dire che Pansa scrivesse male. Magari colorando un po’. Con Bocca ebbero un dissidio sulla genesi del terrorismo rosso. La vera rottura avvenne prima del Sangue dei vinti, durante la guerra per il controllo del gruppo Espresso. Bocca, che era un anticomunista viscerale, si schierò con Berlusconi, mentre Giampaolo stava dall’altra parte». 
E di Scalfari cosa diceva? 
«Lo considerava un grande giornalista e un grande direttore. Ma Scalfari ora sbaglia a sostenere di aver scoperto lui Giampaolo. Quando fu chiamato a Repubblica, rifiutò; preferì restare al Corriere, dove non a caso ha chiuso il suo percorso di giornalista ramingo. Accettò un anno dopo, quando se ne andò Ottone e la P2 stava mettendo le mani sul giornale. Ma insomma aveva già raccontato piazza Fontana, aveva già fatto l’intervista in cui Berlinguer diceva di sentirsi più tranquillo con la Nato che con il Patto di Varsavia...». 
Lei come lo ricorderà? 
«Come lo ricordano tanti vecchi redattori di Repubblica. Ho aperto un vecchio telefonino di Giampaolo e ho trovato il messaggio di uno di loro, Michele Smargiassi, che ricordava il suo primo giorno di lavoro. Pansa non lo conosceva, ma si era alzato, gli era andato incontro, gli aveva stretto la mano, gli aveva augurato buona fortuna. Faceva così perché è un uomo buono e generoso. Potrei raccontarle mille episodi che lo confermano». 
Lei ne parla ancora al presente. 
«Non riesco a parlarne al passato. Giampaolo è qui. Non è da nessun’altra parte. Gli parlo, anche se non sento la sua voce. Non sono diventata matta, anche se a volte la tristezza prevale. Giampaolo è sempre presente, mai opprimente. Sapeva colmare tutti i vuoti. È stato ed è l’amore della mia vita».