Corriere della Sera, 25 gennaio 2020
La Cina e il virus, tra verità e reticenze
La comunità internazionale ha chiesto trasparenza a Pechino di fronte all’emergenza sanitaria, al coronavirus che ci allarma. E nella comunicazione verso il mondo esterno si è visto un nuovo atteggiamento. I ricercatori cinesi hanno subito pubblicato e messo a disposizione della scienza globalizzata il genoma del virus, da loro identificato con discreta rapidità. Erano passati mesi di silenzio colpevole nel 2002, ai tempi della Sars. Ma c’è anche la solita reticenza nell’informare la popolazione cinese. E si somma il dubbio che la burocrazia del Partito-Stato sia inadeguata alle ambizioni di una nascente superpotenza politica, al «sogno cinese» di Xi Jinping. È il calendario di questa crisi che spiega il sospetto.
Ora sappiamo che il primo paziente con sintomi collegati al virus polmonare a Wuhan è arrivato in ospedale l’8 dicembre. Un nuovo virus naturalmente va scoperto. Ma si è cominciato a parlare di «malattia misteriosa», con causa sconosciuta. È andata avanti così fino all’11 gennaio. Poi l’allargarsi dei contagi ha imposto un’accelerazione. È stato decifrato il genoma del virus a forma di corona, pubblicato sul web, sono cominciati i contatti tra Pechino e l’Organizzazione mondiale della sanità. Molto confortante. Però, ancora sabato scorso, il 18, le autorità sanitarie cinesi insistevano a dire che i contagiati erano solo una cinquantina. Ci sono voluti due pronunciamenti dall’estero per richiamare alla realtà.
G li americani che hanno cominciato a controllare i passeggeri dei voli in arrivo da Wuhan; gli epidemiologi dell’Imperial College di London i quali, con un semplice calcolo statistico, hanno avvisato che i contagiati in Cina non potevano essere meno di 1.700. E diversi si erano messi in viaggio, portando nei polmoni l’infezione.
Subito dopo, il 19, i cinesi hanno «scoperto» che i casi erano diventati più di 200 e c’erano stati i primi morti. Ma ancora ci si illudeva, ci si voleva illudere a Pechino, che il contagio fosse solo circoscritto al mercato del pesce e di esotici animali più o meno commestibili nel mercato di Wuhan. Finalmente, il 20, un benemerito virologo cinese ha detto che si era verificato il «passaggio tra esseri umani». Il medico ha abbattuto la grande muraglia di omertà ed è significativo che fosse stato chiamato al soccorso anche nel 2002, per la Sars. Contemporaneamente ha rotto il silenzio Xi Jinping, ordinando prevenzione e controllo epidemiologico, perché la sicurezza e la salute della popolazione sono la priorità massima. Servire il popolo (anche del mondo), dunque.
Trasparenza, un po’ tardiva forse, ma nuova per le caratteristiche cinesi. Però, mentre lo scienziato Zhong annunciava il pericoloso salto del virus tra uomo e uomo, a Wuhan si era appena tenuto un enorme banchetto per 10 mila famiglie, 40 mila persone invitate senza alcuna precauzione, su iniziativa dei funzionari locali (servire il popolo anche a tavola può aiutare a far carriera). Mancanza di senso comune, rifiuto di trasparenza verso i propri concittadini radunare una folla del genere a tavola mentre in città si parla ancora di malattia misteriosa. Si è saputo anche che giorni prima erano stati infettati da un solo paziente 15 membri di una équipe operatoria della città. Se il fatto fosse stato comunicato subito, si sarebbe risparmiato tempo prezioso e cruciale nella comprensione dell’evidenza: il passaggio del virus tra persone. Trasparenza, più o meno, verso l’esterno, consueta opacità all’interno, anche nello scambio di dati cruciali tra dipartimenti statali.
La svolta: il 21, martedì scorso, il Partito-Stato ha detto ai quadri che «chi nascondesse informazioni sul virus sarà punito severamente e inchiodato per l’eternità alla colonna dell’infamia». Pochi giorni dopo, le stesse autorità del grande banchetto hanno messo in quarantena tutta Wuhan, impedendo di viaggiare a 11 milioni di cittadini.
Ora che una dopo l’altra altre città dello Hubei chiudono stazioni e aeroporti per non far viaggiare il virus, ci sono poche speranze scientifiche che il provvedimento sia sufficiente. Dal solo aeroporto di Wuhan, per almeno sette settimane erano partite 30 mila persone al giorno. Il virus non si schiaccia certo nel vetro della nuova trasparenza invocata da Xi. E ci si chiede se a Pechino abbiano numeri ancora più gravi sull’estensione del contagio, per aver preso misure così drammatiche.
È un pessimo Anno del Topo che si prospetta per il presidente della Repubblica, nonché segretario generale del Partito e capo della Commissione militare centrale. In pratica un uomo solo al comando.
Resta a suo merito il fatto che Xi ha parlato del virus chiedendo una battaglia per arrestarlo, non ha taciuto come i suoi predecessori ai tempi della Sars. Allora, nel 2002, la leadership cinese era collettiva e debole, la burocrazia si dimostrò inadeguata all’inizio dell’epidemia. Ora c’è un presidente a vita, un uomo forte. Perché allora la burocrazia si è dimostrata altrettanto lenta allo scoppio del coronavirus? Un problema di sistema piuttosto che di capi supremi.
Un virus nel potere cinese. Una falla nella seconda economia del mondo che resterà anche quando il virus sarà debellato (speriamo presto). Perché c’è una teoria che circola da mesi: molti funzionari dell’enorme apparato sono terrorizzati dalla possibilità di sbagliare, dalla minaccia di punizione. Sono paralizzati, agiscono solo se c’è un ordine dal centro del potere e perciò tardano a reagire alle emergenze.