Corriere della Sera, 24 gennaio 2020
Chi sono i mercenari di Erdogan in Libia
«Sei turco?». Aeroporto di Misurata, coda «non libyans». Da oggi s’atterra solo qui. Neanche cento ore dopo la conferenza pacificatoria di Berlino, i Grad di Khalifa Haftar hanno abbattuto un drone turco sulle piste di Mitiga, rotto la tregua e pure gli indugi: guai a chi solca il cielo sopra Tripoli, avverte il feldmaresciallo, abbatteremo qualsiasi cosa ci voli, foss’anche un Boeing come in Iran. Tutti a Misurata, dunque: tre ore e mezza d’auto dalla capitale. Gli ultimi aerei della sera scaricano in Tripolitania malati che rincasano da Tunisi e pellegrini di ritorno dalla Mecca, sfollati africani e spioni europei, quiete famigliole e dormienti tagliagole. I soldati misuratini hanno gli occhi aperti. E qualche riguardo, se intravvedono i loro nuovi amici: ai controlli s’avanza un ragazzone tarchiato e tatuato di femmine e disegni d’esplosioni, la pelle scheggiata, carico di borse e d’un giubbotto antiproiettile. «Sei turco?», la rispettosa domanda. Come chiedere: sei per caso uno dei valorosi combattenti venuti ad aiutarci contro il traditore criminale Haftar? No: il passaporto è rosso Ue, niente amaranto Türkiye Cumhuriyeti, e nelle sacche ci sono solo obbiettivi da fotoreporter, mica armi da mercenario. I doganieri sono un po’ delusi. Un italiano… In coda con gli altri, allora. Anzi, più in coda degli altri.
I filoturchi ci sono, ma non li vedi. Hanno le mimetiche, non le mostrine. Parlano arabo, ma l’accento è siriano. Li manda Erdogan, si raccomandano a Dio. «Sono 35 nostri addestratori militari e consiglieri militari – minimizza il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar – che danno il sostegno alla formazione dei fratelli libici». «Sono tremila paramilitari siriani mandati via da Raqqa – spiegano quelli di Haftar – e ne arriveranno presto altri tremila per aiutare il governo terrorista di Tripoli: gliene abbiamo già ammazzati una trentina». Atterrano con voli speciali della Turkish, viaggiano da Misurata alla capitale su pullman scortati dalla polizia tripolina. In tasca, un mensile di 2 mila dollari. In mano, le armi per uccidere i cirenaici e i loro «addestratori» russi. In testa, la promessa d’un passaporto turco rilasciato a fine 2020.
Ci sono, ma dove sono? Molti, nella base militare Salahaddin e a Tajura, dov’è la cinquecentesca moschea ottomana Murad Agha che il neo-ottomano Erdogan venne a visitare quattro anni fa. La «khad», la linea dell’assedio iniziato il 4 aprile da Haftar, è su otto grandi strade venti chilometri a sud di Tripoli. Sta nella zona di Mashrua (il Progetto), la periferia modello della capitale che l’era gheddafiana numerava via per via e voleva riempire di fabbriche, oggi stracolma di miliziani: nelle strade 4, 5 e 6 hanno piantato le camerate e le cucine; nella 7, si combatte spesso; nella 8 c’è il fronte caldissimo di Khalla Tat, i cadaveri fra i cementifici abbandonati. «Se cammini oltre il carcere di Abu Selim – dicono qui —, puoi morire e nessuno lo saprà». Fino a un mese fa, a Mashrua s’andava a proprio rischio. Da quando sono comparsi loro, i siriani filoturchi, una rete di check-point fedeli al premier Sarraj li protegge bloccando chi s’avvicina: «Militari professionisti – li descrive un miliziano che ha a che fare con loro —, gente seria, non esaltati».
A Tripoli, turchi&turcomanni sono affettuose conoscenze. Quelli che ci vivono da sempre, fanno mobili e infissi dalle parti di Dahra. Quelli appena arrivati, hanno subito i loro ristoranti di riferimento: «Quando levano la divisa – sussurra il cameriere del Sultan Ahmet —, vengono a mangiare qui». I turchi hanno viaggiato a lungo senza visto, qui, ma Gheddafi non li amava molto: ai tempi del re, l’Economist ne lodava «la fantastica fedeltà a Tripoli», così ci pensò il Colonnello a consigliare l’Ue di tenere fuori Erdogan («attenti – diceva —, sarà il cavallo che distruggerà tutta Troia…»). «Voi italiani ci avete scaricato e Sarraj ha fatto bene a chiedere l’aiuto dei turchi – commenta ora Othman Salem Ben Amara, 60 anni, padre d’uno dei cadetti uccisi nella strage del 5 gennaio —. Ma ci bastavano le loro armi: gli uomini, ce li possiamo mettere noi». Fra le case dietro l’aeroporto di Mitiga, odore di galline morte e auto accartocciate, camere da letto sventrate e alberi spiumati, è dove piombano i razzi di Haftar. La gente se n’è andata via, ha intuito il peggio. Su un muro della Noflim Street, uno spray invoca la «Syria horra», Siria libera in arabo. Tre settimane fa, non c’era.