la Repubblica, 23 gennaio 2020
C’era una volta Maria Sharapova
«Dolcissima Maria, non voltarti più», cantava la Premiata Forneria Marconi. Forse Maria Sharapova farebbe bene a seguire il loro lontano consiglio e magari ascoltare quella magnifica canzone che non può invecchiare, al contrario di certi campioni dello sport (Dolcissima Maria).
Maria è sotto attacco e non sa più difendersi. Urla come urlava prima: “Solo che adesso”, scrivono in Australia dove Maria ha salutato lo Slam al primo turno, senza un sorriso, accecata dalla rabbia giovane di Donna Vekic, “Maria urla come le avessero strappato un cerotto dalla pelle più tenera, urla come dopo una telefonata sgradevole, urla perché si rende conto di essere alle prese con una questione ormai più grande di lei, e non può (più) vincere”. Urla e basta. Questo il problema. I colpi escono ma sono carezze. Maria va capita. Non si torna grandi perché si decide di farlo. Non a 32 anni e non dopo un’operazione alla spalla dalla quale ti risvegli, sì, ma pieno di dubbi, incatramato. Maria non è più stata lei, non ha più servito come prima e vederla muoversi a fondo campo (che già non è mai stata una sua virtù peculiare) era diventato uno strazio: «Uno può anche fare le cose giuste – ha ammesso – ma se non credi in te stessa è tutto inutile». Vero. La rinascita parte dal cuore, da quell’invisibile involucro che ammanta il gesto atletico e, se c’è, il talento. Quando lei perde, ormai, perde una qualsiasi. Forse è questo che più l’addolora. Se al primo turno di un Australian Open esce la futura n.366 del mondo, chi volete che ci faccia caso? Nemmeno se è quella Maria lì, la ragazza che stravolse il tennis a 17 anni prendendosi Wimbledon come se non avesse fattoaltro in vita sua. Il suo grunting, l’urlo in campo, era diventato un marchio di fabbrica del nuovo tennis femminile, muscolare, occhi dolci e cuore cacciatore, lunghi capelli biondi e ferocia inaudita. Maria ha cercato di rigenerarsi. Le ha provate tutte. Forse anche qualcosa di troppo. Tanto è vero che l’hanno inchiodata, e diciamo pure incastrata, per aver fatto uso di Meldonium, il farmaco sintetizzato in Lettonia negli anni 80, si dice, per aiutare le truppe russe in Afghanistan, e messo fuorilegge dalla Wada, l’antidping mondiale, con provvedimento postumo. Ma in realtà nessuno sapeva a cosa servisse e forse non lo sapeva nemmeno Maria. A quel punto il sospirato ritorno diventava una scalata a mani nude. Da qualche mese Maria si è messa a disposizione di Riccardo Piatti. Doveva essere solo per un breve periodo. Poi la “belva” si è accorta di trovarsi bene a Bordighera. Piatti l’ha accolta e protetta: «Lasciatela lavorare in pace». Anche per lui, uno dei più talentuosi coach del mondo, era una sfida: «Ho allevato e allenato ragazzi ma non mi era mai capitato di confrontarmi con una campionessa così». Piatti era entusiasta. Ma non tranquillo. E Maria non si è ancora ripresa. Forse, dentro, non le va più. Forse ha voglia di un’altra vita. È stata una meraviglia, Maria. In campo la sua testa andava al doppio della velocità delle altre. Aveva una capacità di concentrazione fuori dalla norma. Aveva. Avrà ancora? Cedeva solo a Serena. Ora dice: «Non ho la palla di vetro. Non ho idea di come sarà il mio 2020». Il punto è che non sa neppure cosa farà la prossima settimana. Se si guarda indietro, senza allungare troppo lo sguardo, vede solo macerie. Tre uscite al primo turno negli ultimi tre Slam. Uno score al passivo. Una sempre più rara predisposizione al sacrificio. Comprensibile, se la realtà è pura malinconia agonistica. Le resta quella sua maniera di prepararsi al punto dando le spalle all’avversaria. Ma che se ne fa ormai. Per lei anche la n.19 del mondo, Vekic, è un Everest che toglie il respiro. Solo a guardarlo. Triste Maria, dolcissima Maria.