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 2020  gennaio 23 Giovedì calendario

Intervista ai genitori di Giulio Regeni

FIUMICELLO — C’è una foto inedita che racconta una famiglia, un figlio che non c’è più, e la resilienza di una battaglia di verità e giustizia per le responsabilità dei suoi carnefici. È un’immagine a colori del Natale del 2014, il penultimo Natale di Giulio. Lui sorride. Di un sorriso schivo, come era lui, tenendo stretta a sé la madre, Paola, a sua volta abbracciata dal padre, Claudio. Erano a Santa Fè, New Mexico, Stati Uniti, dove Giulio aveva studiato nel Collegio del Mondo unito. Erano felici. E lo erano non soltanto perché erano insieme, ma perché erano in viaggio. Il viaggio era la cifra del mondo di Giulio, il motore della sua vita, la chiave dell’educazione che aveva ricevuto da Paola e Claudio. Il viaggio lo aveva portato a Cambridge. Il viaggio lo avrebbe portato al Cairo. «Abbiamo sempre viaggiato per allargare la nostra conoscenza del mondo e il nostro modo di pensare — dicono ora Paola e Claudio — perché il viaggio è un antidoto alla paura. Non si può pensare di stare chiusi in casa, con la preoccupazione di tutto quello che potrebbe succedere».
Per questo Giulio partì per il Cairo.
Per questo Paola e Claudio tornerebbero a crescerlo come lo hanno cresciuto. «La paura non va confusa con la prudenza e Giulio era prudente. Il problema non è stare o non stare a casa. Il problema sono gli Stati che violano i diritti umani, ma che vengono considerati amici dai nostri governi mentre invece dovrebbero essere considerati esplicitamente non sicuri». Anche per questo, ora che sono passati quattro anni da quel 25 gennaio del 2016, quando quel ragazzo sorridente nella foto uscì per l’ultima volta dalla sua casa del quartiere di Dokki, quadrante residenziale del Cairo, Paola e Claudio hanno scelto di scrivere un libro (in libreria da oggi per Feltrinelli) e di intitolarlo “Giulio fa cose”.
«Abbiamo deciso di raccontare il nostro cammino per la ricerca della verità — dicono Paola e Claudio — Di raccogliere alcuni passaggi significativi della sua tragica sorte e della nostra esperienza in questi quattro anni.
Avevamo la necessità di raggiungere tutte le persone che non abbiamo potuto incontrare con i nostri viaggi “di” e “per” la verità, con la nostra, impareggiabile, legale Alessandra Ballerini. Abbiamo voluto raccontare la storia della nostra famiglia. Far comprendere meglio chi e come siamo. E questo per far capire chi e come era Giulio».
Hanno ragione, Paola e Claudio. In quelle pagine c’è uno squarcio sorprendente nell’intimità delle emozioni di una famiglia improvvisamente sconvolta dall’imponderabile. Da un’enormità che non aveva precedenti nella storia repubblicana. Un cittadino italiano torturato a morte da apparati di sicurezza di uno Stato legato da rapporti di alleanza e amicizia all’Italia. A cominciare dall’esperienza intima del dolore.
Scrivono nel loro libro Paola e Claudio: «L’omicidio di Giulio ha cambiato tutto: oggi, per esempio, ci capita, come in passato, di entrare nelle chiese e fotografare le Madonne, con il Cristo morto tra le braccia. E ci troviamo a pensare: almeno Maria ha avuto la possibilità di tenere suo figlio tra le braccia... Ti abitui a convivere con un dolore non sopportabile. Ma quel dolore non può rappresentare un freno per quello che invece riteniamo, da genitori e da cittadini, necessario fare. Mai come in questo momento è fondamentale per noi difendere la nostra identità. Di uomini, di donne e di genitori. Soltanto così possiamo essere certi di difendere l’identità di Giulio».
Già, l’identità. Quella di Giulio, ma anche la loro. Di Paola e Claudio.
Perché, normalmente, al dolore di una perdita violenta, si somma quella della sua rappresentazione di maniera. Per questo Paola e Claudio scrivono di essere «cittadini» e non «genitori di una vittima». E ora dicono: «La parola vittima ha una connotazione passiva che toglie identità e possibilità di espressione alle persone. Si contrappone alla parola cittadini che, invece, mantiene una connotazione attiva. Esprime quella facoltà di lottare per raggiungere un diritto: quello alla verità e alla giustizia».
«Cittadini» e non «parenti della vittima», dunque. Dev’essere anche per questo motivo che Giulio è diventato un simbolo. Di una generazione, la sua, e non soltanto di quella. Eppure, anche la parola “simbolo” fa stare scomodi Paola e Claudio. «Giulio era una persona cui piaceva il basso profilo — raccontano — Non amava parlare, mettersi in mostra, presentarsi per tutto quello che lo aveva visto impegnato. A lui piaceva stare con gli altri come persona. Per questo rimarrebbe stupito, oggi, a essere considerato un simbolo. Giulio era una persona coerente, anche a costo di sembrare esigente». E neppure loro, Paola e Claudio, ritengono di essere un simbolo. «Siamo e ci sentiamo delle persone normalissime che si sono trovate, loro malgrado, in una situazione inimmaginabile». Che, a ben vedere, ne ha prodotta una altrettanto inimmaginabile: il Davide di una famiglia che lotta senza paura contro il Golia di un regime militare. Perché Paola e Claudio non hanno paura. «Paura dovrebbero averla coloro che non sono stati e non sono, tuttora, onesti verso Giulio».
Ci vuole coraggio a non avere paura. Anche se — dicono Paola e Claudio — quel coraggio è arrivato da chi non li ha lasciati soli. Che non sono stati però gli italiani del Palazzo della politica — «Ci saremmo aspettati un’azione più decisa e determinata nei confronti dell’Egitto, con un coinvolgimento più efficace dell’Europa» — ma quelli che hanno incontrato nelle piazze, nelle scuole, sui social network.
«Questa Italia è stata la nostra più grande sorpresa: un Paese che ci è stato e ci sta vicino, senza strepitare, ma sempre con affetto e determinazione». Che ha avuto un merito. «In un tempo come il nostro, segnato troppe volte dall’opportunismo e dai compromessi, Giulio sta costringendo molti a riflettere e a decidere da che parte stare. E sulla necessità di mettere i diritti umani al centro della politica».
La scelta sulla parte con cui stare non è una petizione di principio. È un atto politico, che Paola e Claudio ritengono a questo punto non più negoziabile. «La più grande delusione è stata la scelta del nostro governo, il 14 agosto del 2017, di far tornare l’ambasciatore al Cairo, con il risultato di interrompere quella che già era allora una faticosa e scarsa collaborazione. Dunque che questo governo richiami l’ambasciatore dal Cairo. E coinvolga l’Unione europea nel dichiarare l’Egitto un Paese non sicuro». Quanto ad Al Sisi, ancora una volta, faccia ciò che da quattro anni promette di fare e non fa.
«Risponda alla rogatoria della Procura di Roma e le metta a disposizione i cinque ufficiali dell’intelligence accusati del sequestro di Giulio perché siano interrogati e perché vengano stabilite le loro responsabilità.
Senza il solito mantra sugli sforzi di cooperazione per la verità e giustizia», dicono Paola e Claudio.
Dopo quattro anni, non è più il tempo degli inganni, dell’ipocrisia, della paura. È il tempo del coraggio. Di «fare cose». Come Giulio.