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 2020  gennaio 23 Giovedì calendario

La parabola di Luigi Di Maio

Era quasi la fine di settembre del 2017 e il palco issato non lontano dal mare di Rimini. Quando, al termine di elezioni on line così scontate da meritarsi il nomignolo di “Gigginarie”, Luigi Di Maio fu acclamato re sotto una pioggia di coriandoli tricolori, Beppe Grillo lo abbrancò e stringendolo a sé in quello che sembrava più di un abbraccio: «E adesso, Luigi – tale la formula di proclamazione sono cazzi tuoi!».
Si approfitta dell’odierna circostanza per ricordare l’istruttiva scenetta; ma anche per far notare come le difficoltà, per così dire, già da allora prefigurate dall’Elevato sulla strada del giovane capo politico si possano oggi estendere al Movimento cinque stelle e, in parte cospicua, anche agli italiani che se lo ritrovano ministro degli Esteri.
Non si smetterà mai di ricordare che il potere non è un red carpet, ma una spada affilata sopra la capoccia. E se a 31 anni Giggino (che si ribellava al soprannome intimando prontamente «a’ soreta!») aveva certamente l’età giusta, e l’energia, e anche un certo sangue freddo, beh, la sua piccola-grande storia di potere conferma il crudele paradigma del capro espiatorio, con l’aggiunta che di norma le investiture dall’alto (Casaleggio e associati) accelerano lo schema e il processo, così come la mancanza di preparazione e cultura, anche personale, rende il tutto più drammatico e irrimediabile.
Ciò detto, da Berlusconi che all’inizio lo qualificò «un bel musino da tv» a Rino Formica secondo cui, più che un leader si trattava di «uno scugnizzo all’arrembaggio» è pur vero che nel marzo 2018 fu Di Maio a portare le raffazzonatissime liste cinque stelle là dove nessuno si aspettava, oltre il 30 per cento. Ma poi: che veloce e disastroso precipizio!
Come foglie secche si accartocciano alla rinfusa le tappe politiche, ma ancora di più le parole e le immagini del plenipotenziario ridotto a agnello sacrificale. La guerra ai congiuntivi e la vasta gamma di spropositi social; lo strattonamento di Mattarella (poco prima evocato come il saggio vecchietto di “Guerre stellari"); l’ubiqua foto con ostensione della pizza o il trionfo iconico del biglietto economy per la Cina; la scena del balcone, con annessa «cancellazione della povertà» e la nomina di Lino Banfi all’Unesco; l’evocazione della “manina” e il rutilante broadcasting delle fidanzate; le immersioni in Sardegna, il ritorno da vincitore al liceo di Pomigliano, il pedinamento di Conte nei luoghi di Padre Pio.
È vero: questa è oggi la politica in Italia. Ma diamine, che bisogno c’era di mostrare tutto quel feroce autoritarismo nei confronti dei dissidenti? E quale cieca autostima l’ha portato a impuntarsi per ottenere la guida della Farnesina, che è il mestiere più difficile del mondo? Per cui ci si sente autorizzati a credere che questo addio Di Maio se l’è cercato e l’ha ottenuto – e ora, come ti sbagli, lo molleranno anche i fedelissimi; e domani magari finirà a fare comunicazion o addirittura in televisione. Altro che statuto (disegnatogli su misura dallo studio Lanzalone), altro che “facilitatori” e “team del futur o”, per non ricordare l’inflazione retorica che avrebbe dovuto innalzarlo rispetto alle sparate di Salvini: «pensiamo in grande», «stiamo scrivendo la storia», «è cambiata l’Italia» oltre a un paio di «rivoluzioni», da quella della Rai a quella del mondo del lavoro.
Pare di rivederlo durante la liturgia inaugurale del reddito di cittadinanza, allorché tolto il velo nero sotto la sacra teca il giovane ministro vide luccicare la sacra e agognata tesserina; o quando al primo raduno dei navigator all’Auditorium l’imperdibile professor Mimmo Parise, per fare l’americano, introdusse il giovane demiurgo: «Ladies and gentleman, please welcome Luigi Di Maio!», e lui si compiacque di quella «squadra di campioni per un’Italia vincente». In realtà l’Italia era sempre l’Italia. Il guaio, semmai, è che sempre più di frequente arrivavano momenti in cui lo sradicamento delle culture politiche e le relative scorciatoie sostitutive rendevano la scena pubblica ancora più grottesca.
Su di un piano meno cervellotico, viene da pensare che con l’Elevato le cose erano cominciate ad andare così così; che la Casaleggio, con le sue diramazioni di programmatori neurolinguistici, non sapeva più bene che pesci prendere; che Conte, inebriato, faceva sempre più per conto suo; ma soprattutto che come capo politico Di Maio non aveva voglia di mollare Salvini, con cui bene o male per tante ragioni s’intendeva.
Ma era stato costretto; inutile insistere con i «pretendo» e i «non transigo»: aver accettato il nuovo governo equivaleva all’inizio della fine. Dietro alla più tignosa persistenza s’intravedeva l’ombra di Calimero, il pulcino piccolo e nero che più di una volta è comparso nelle argomentazioni di Di Maio – e se il riferimento culturale suona povero, beh, non è che dagli altri colleghi di Giggino (con permesso) se ne sentano di molto più preziosi.