La Stampa, 23 gennaio 2020
La moda riveste le donne
Dalle sfilate di Parigi una indicazione di stile alle donne: rivestitevi. La moda sembra voler ricomprendere il valore, o semplicemente il concetto di pudore? È questa la domanda che non parte certo oggi e su cui anche le donne, femministe o meno che vogliano definirsi, discutono. Son passati molti anni dallo slogan il corpo è mio e lo gestisco io, e questo include certamente il potere e il diritto di vestirci e anche svestirci come ci pare. A patto però che sia veramente una nostra volontà o un nostro desiderio. E in questi ultimi decenni che possiamo chiamare post femministi, l’idea di una donna che acquista valore ma soprattutto potere attraverso l’esposizione del proprio corpo non è stata certo una scelta autonoma. Le immagini, molte provenienti dall’universo magico della moda, hanno influenzato e dettato scelte estetiche così come la costruzione maschile e maschilista della società ha dettato o influenzato comportamenti e scelte che hanno frenato il raggiungimento della parità di genere nel nostro Paese. E dalle vicende svelate dal Metoo ne abbiamo una rappresentazione esaustiva di cui in parte dobbiamo assumercene la responsabilità.
Tutto questo ha certamente influenzato i creativi, e soprattutto le creative, visto che alla direzione delle più importanti case di moda internazionali ci sono donne come Virginie Viard, da Chanel, o Maria Grazia Chiuri, da Dior. E certo non è un caso che questa rivoluzione di stile parta proprio da loro. Chanel tira fuori dalla soffitta il «perbenismo». E fa dell’eleganza una scelta quasi monacale, da collegio di educande. La sobrietà come valore e soprattutto le abbottonature e la copertura del corpo come esaltazione di una nuova seduzione che non prescinde dalla bellezza canonica ma neanche da quella emotiva e di «testa». Tacchi bassi, gonne al ginocchio, colletti bianchi, trucco impalpabile. Mentre la Chiuri veste le donne come sacerdotesse con lunghi pepli che coprono il corpo. Quasi ascetiche. L’alta moda che procede per sottrazione, archiviando fasto ed eccessi.
Certamente questa tendenza dipende anche dal «business», ossia dalla necessità di vendere anche in Paesi dove la cultura e la religione impongono una moda che copre il corpo delle donne. E così il pudore che in quei posti è sinonimo di imposizione da noi diventa rivoluzione.