La Stampa, 21 gennaio 2020
Pensioni, l’offensiva del partito degli anziani
Il partito degli anziani annuncia un’offensiva. Le grandi confederazioni sindacali italiane, nate per difendere chi lavora, si sono trasformate: circa metà dei loro iscritti sono già pensionati, e tra i rimanenti una quota notevole non è lontana dall’età del riposo. Logico che si concentrino sulla richiesta di andare in pensione prima, a partire dai 62 anni.
Ci sarà anche l’idea di non lasciare quella bandiera in mano alla Lega. Ma è un altro passo nella generale rinuncia – ben visibile nella politica – a ogni tentativo di rappresentare interessi collettivi: a un progetto di bene comune, insomma. Nel passato dell’Italia, il sindacalismo confederale aveva cercato appunto questo, unire al di sopra degli interessi di categorie e strati sociali.
Oggi si spera piuttosto che la mobilitazione di alcuni trascini dietro di sé il malcontento di molti altri, pur se gli interessi divergono. È così in questi giorni in Francia, dove chi aborre Emmanuel Macron può scendere in piazza per difendere il diritto dei conducenti della metropolitana di Parigi ad andare in quiescenza a 50 anni (cinquanta) e 8 mesi.
Nell’Italia di oggi chi ha 62 anni, per sua fortuna – grazie ai progressi della medicina – può sperare di viverne in media altri 25 (un po’ meno se uomo, un po’ più se donna). Così gli anziani sono sempre più numerosi, mentre i giovani sono pochi, spesso impiegano tempo a trovare il primo impiego, ricevono paghe piuttosto basse.
Dato che le pensioni si pagano con i contributi dei lavoratori attivi, già con le norme attuali un peso crescente si abbatterà sui cittadini di domani. Entro 25-30 anni (a seconda di quali ipotesi demografiche ed economiche si realizzino) il numero dei pensionati eguaglierà quello dei lavoratori. I contributi su ciascuno stipendio dovranno sostenere una intera pensione.
È comprensibile che chi svolge un lavoro sgradito non veda l’ora di smettere. Entro certi limiti, si può consentire una scelta: il governo ci sta pensando. Ma, per equità verso chi resta, chi lasciasse 5 anni prima dovrebbe ricevere un trattamento assai inferiore, per compensare sia 5 anni di meno di contributi sia 5 anni in più di pensione nel futuro.
Un ricalcolo corretto non cambierebbe gli equilibri di lungo periodo del sistema previdenziale. Però la decurtazione sarebbe consistente, attrarrebbe pochi. Nell’intervista di ieri a questo giornale, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini lo giudica inaccettabile, chiede «elementi solidali» per attenuare il taglio. La Cisl concorda, la Uil anche.
Salvo i casi dei lavori pesanti o nocivi, in parte già previsti, perché mai i giovani lavoratori dovrebbero essere «solidali» con i colleghi anziani che preferiscono mettersi a riposo? Oltretutto, risulta da un’analisi della Banca d’Italia, i pensionamenti anticipati di «quota 100» aprono pochissime nuove occasioni di lavoro per i giovani (occupati -0,4% a bilancio).
Nel generale ristagno della economia italiana, i pensionati già sono quelli che se la passano meno peggio, come prova un rapporto Istat di qualche giorno fa. Invece un giovane italiano con una buona laurea se va a lavorare in Germania guadagna il doppio che qui, in Francia quasi. A quelli che rimangono per giunta gli vogliamo far pagare più contributi?
La Cgil suggerisce di trovare risorse con una imposta patrimoniale. Ma il proposito di «colpire i ricchi» si infrangerebbe contro la reazione dei ceti medi; perché, nel ceto medio, sono appunto i patrimoni degli anziani il principale strumento per lenire, via famiglia, le difficoltà dei giovani. E così il cerchio si chiude.