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 2020  gennaio 20 Lunedì calendario

Nell’ospedale che guarisce i malati di gioco

Gabriele ha iniziato adolescente con i cavalli, e in 35 anni ha perso un milione e mezzo di euro. Carla con il Gratta e Vinci: 500 euro al primo colpo hanno innescato un pesante processo di indebitamento. Luca con le scommesse on line che lo portavano a stare collegato al cellulare anche 22 ore al giorno. 
Gabriele, Carla e Luca non sono nomi veri, ma di fantasia. Si fanno chiamare così perché accettano di parlare della loro dipendenza, del loro pezzo di vita affogato nel gioco d’azzardo e della sfida di ricominciare un tempo nuovo, senza giornate trascorse a scommettere, affetti messi da parte, dolori fisici, sensi di colpa, tutto quel complesso malessere che portato all’estremo rischia di farti rotolare in una lavatrice, come chiamano loro la febbre del gioco. 
L’EFFETTO VORTICE
Il gioco che divora lunghi pezzi di vita, giorni, notti, mente. Che accelera il tempo fino a farti compiere azioni per procurati di denaro che mai avresti pensato di fare. Il gioco che rende schiavi, un demone, parole sempre loro, che travolge. Ma ora la voglia di voltare pagina, perché si è perso tutto, in termini di denaro e di legami umani, li ha portati qui, nell’unità dedicata al Gioco d’azzardo patologico del Policlinico Gemelli di Roma, tra i centri di riferimento in Italia per la cura delle dipendenze, condotta da due psichiatri del servizio di consultazione psichiatrica, Luigi Janiri e Marco di Nicola, e da una psicoterapeuta del servizio di psicologia clinica, Raffaella Franza. 
Gabriele, Carla e Luca raggiungono il Gemelli due volte alla settimana. Si riuniscono in dieci per un’ora e mezzo a ogni appuntamento e raccontano dei loro momenti di debolezza, dei dolori e delle gioie che possono far traballare i buoni propositi, perché, ci spiega la psicoterapeuta, ogni emozione che si discosta «dalla fascia del sopportabile», in senso negativo come in positivo, può portare a una potenziale ricaduta. Succede a Gabriele, qualche volta. Luca non ricade da un anno e detiene una sorta di leadership nel gruppo. 
Carla non ha più ceduto alla dipendenza da tre mesi, da quando ha iniziato il percorso di cura nelle sedute collettive. E per la prima vota, da otto anni, ha preparato un albero di Natale con tutti gli addobbi. Ha fatto arrabbiare molto, in famiglia, Carla. Negli anni passati per ripianare i debiti del gioco ha firmato contratti di credito con una serie di finanziarie, anche se in questo percorso di cadute e risalite ha trovato un datore di lavoro e una collega che le hanno «ripianato i debiti». Ma per restituire quei soldi nel tempo ha ripreso a giocare. Tutto è tornato come prima, e il debito si è innalzato a 90mila euro. Il fratello non voleva raggiungerla per Natale. Poi alla fine ha detto sì. Per lei una gioia immensa, potenzialmente pericolosa come ogni emozione, ma alla fine il giorno del cenone è arrivato e Carla non è entrata nel tabaccaio per grattare la fortuna.LE RIUNIONI SALVA VITA 
L’incontro avviene al Policlinico Gemelli, in compagnia del loro «angelo custode», come chiamano i pazienti Raffaella Franza, in un reparto silenzioso dove solo qualche telefono squilla a intermittenza, e tutti e tre raccontano «del tempo ritrovato». Quel tempo che prima subiva cambi di marcia perenni, «colpi di adrenalina costanti» e che ora rallenta, consente di fare un viaggio a Lanzarote per Gabriele, imprenditore, di ritrovare interessi sepolti nel passato per Carla, acquistare due regalini ai fratelli più piccoli per Luca, il più giovane e all’inizio il più chiuso: «Scommettevo ogni dieci minuti, online, dal telefono e dal computer», racconta lui. «Arrivavo al punto di non sapere più che cosa scommettevo e quanto. Riattaccavo il telefono agli amici perché mi disturbavano. Giocavo al lavoro. Ho perso la fidanzata». Ora vive con poche decine di euro alla settimana, perché il denaro è gestito dalla famiglia. Carla con 20. «E quando compro una stecca di sigaretta – racconta l’unica donna del gruppo – devo inviare una foto a mia figlia, dentro casa, per dimostrare che i soldi non sono stati spesi in altro, e che la stecca è la mia». Anche quando si smette, la vita va affrontata momento dopo momento. «Quando ho ripreso ad uscire con gli amici – torna a raccontare Luca – e si andava in tre locali diversi, non era facile trovarmi senza soldi. Come lo spieghi?».
«Chi entra qui – chiarisce Franza – Non deve pensare che poi tornerà a giocare qualche volta. L’obbiettivo è smettere. Anche se applichiamo la filosofia del giorno dopo giorno, stiamo nel qui e ora». 
«Molti amici – si inserisce Gabriele – hanno sempre considerato un gioco come un vizio. Ma non è un vizio. È una malattia». È una malattia anche secondo la letteratura ufficiale: nella quinta edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, il gioco d’azzardo patologico viene collocato all’interno delle dipendenze e non più definito solo come disturbo da controllo degli impulsi.
IL PERCORSO
«Essere qui significa averne preso coscienza. Assumiamo psicofarmaci. Attraversiamo la città per arrivare. Ma qui possiamo toglierci la maschera, possiamo dire cose che non diciamo a nessuno». Anche quando si perdono grosse cifre, «la vita va avanti», quindi non resta che mascherarsi, anche se «si perde interesse per tutto. Se hai perso mille euro in una volta, come fai il giorno dopo ad alzarti per guadagnare 100? Non ami più il tuo lavoro. Ti interessa solo procurarti soldi, giocare, cercare di recuperare quello che hai perso con la vincita illusoria e si va avanti così». Il piacere della vincita è fortissimo, ma brevissimo, oltre che evanescente. E con il tempo, come una mano salvifica, spunta la stanchezza. Gabriele era arrivato al punto di «non dormire più la notte», tormentato da dolori fisici che nascevano dall’enorme mole di tensione. Ora, oltre agli appuntamenti bisettimanali, per i momenti più duri, c’è una chat di gruppo dove ci si sostiene e ci si dà consigli. 
Una delle sfide, valuta Gabriele, «è che noi ci abituiamo alla normalità, ma succede che si crea un vuoto, ti manca qualcosa, e quel qualcosa lo vai a cercare da qualche altra parte». Per lui, in un dato periodo, era stato il lavoro, in cui si è tuffato con eccesso, per qualcun altro gli affetti. «Quando ho smesso di giocare – racconta Luca – ho iniziato ad uscire con mio fratello e mio cugino anche tutte le sere, anche se ero stanco dopo il lavoro. Ora invece mi basta anche un’uscita alla settimana». È il ritorno nel mondo della realtà. Tutti parlano dell’ossessione del gioco come un abitare «un altro mondo» che domina il pensiero. 
«Ho un sogno – dice ancora Gabriele – Dare aiuto come io sono stato aiutato. Si gioca più frequentemente nelle periferie, sono spesso persone anziane. Il messaggio di farsi aiutare deve arrivare anche ai giovani, io ho iniziato a 15 anni. Lo Stato è troppo poco attento, pubblicizza il gioco come se fosse un illusione, ma il problema è che ci sono persone che perdono il controllo, fino ad arrivare a un punto di non ritorno, come se ci fosse un demone dentro di te, che ti rende schiavo. Ero arrivato al punto che, mentre assistevo mia madre in ospedale, aspettavo che si addormentasse per scappare via 30-40 minuti in sala a giocare». Il servizio di consultazione psichiatrica dell’ospedale Gemelli si prende cura anche degli adolescenti: «In questo caso la dipendenza da gioco – spiega Luigi Janiri, direttore dell’Unità di psichiatria – si incrocia con la dipendenza da Internet». Un gruppo di specialisti si occupa anche di tenere corsi per il personale delle sale «per sensibilizzare sui comportamenti a rischio». È un passaggio rivoluzionario: il fine è quello di fare in modo che atteggiamenti anomali siano sorvegliati da chi fornisce il servizio stesso del gioco. Perché chi li vive spesso non se ne rende conto finché non arriva all’estremo. 
C’è un sommerso enorme. Nel 2019 si sono rivolti al servizio per la cura della dipendenza da gioco d’azzardo dell’ospedale romano 75 persone. Quarantacinque hanno avviato il programma riabilitativo di gruppo. Il 90% sono uomini. Il 70% dei pazienti è in possesso di un diploma scolastico, il 23% della licenza media, solo il 7% è laureato. Il primo passo per accedere alla cura è prendere un appuntamento telefonico al numero 06-30154122. Viene aperta quindi una cartella clinica con una prima valutazione e la presa in carico del paziente.