Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 20 Lunedì calendario

Diario di viaggio di uno scienziato a Hong Kong

La protesta si è riaccesa a Hong Kong. Gli scontri fra polizia e manifestanti, le devastazioni, le occupazioni delle università, le grandi manifestazioni, perfino un’irruzione nel parlamento, tutto sembrava essersi calmato dopo la vittoria dei candidati pro democrazia alle elezioni circoscrizionali di novembre. Nei giorni scorsi ero all’Università di Hong Kong. 
Studenti mi mostravano compiaciuti le terrazze dalle quali avevano lanciato sassi e frecce contro la polizia, le entrate del campus dove erano bruciate barricate, i pavimenti divelti per raccogliere pietre. Ma l’atmosfera del campus era sonnacchiosa, i negozi di lusso del centro scintillavano impeccabili, trasudando ricchezza, le stradine decrepite del quartiere del mio albergo brulicavano della consueta vita caotica e colorata della povertà dei tropici. L’Hong Kong di sempre, insomma: con un prodotto pro capite fra i dieci più alti del mondo, e livelli di diseguaglianza impensabili in Europa. La calma non è durata molto: ieri sono ricominciati i disordini. 
Cosa li motiva? Hong Kong è stata colonia britannica per oltre un secolo. Non potendo tenerla, Londra l’ha ceduta alla Cina nel 1997, con un trattato in cui Pechino si è impegnata a mantenerne per 50 anni l’economia capitalistica e una considerevole indipendenza legale e amministrativa. Con ipocrisia tutta inglese, Londra ha ottenuto un ambiguo impegno ad andare «verso» elezioni a suffragio universale: elezioni che la stessa Londra si era guardata bene dal concedere alla propria colonia. Oggi Hong Kong ha un governo sulla cui scelta Pechino ha peso determinante. Il principio è «un Paese, due sistemi», lo stesso con cui Pechino cerca, per ora con poco successo, di convincere Taiwan a riunirsi al continente. Per decenni Hong Kong ha giocato il ruolo di porta commerciale fra Cina e Occidente, facendo comodo a tutti. 
È diventata il nodo finanziario dell’Asia, accumulando ricchezza. Le tensioni per l’ambigua relazione con la Cina, sempre presenti, sono esplose solo nell’ultimo anno, innescate da una proposta di estendere i trattati di estradizione, percepita come cessione di sovranità alla Cina. Oggi la proposta è accantonata dal governo; le domande della protesta sono amnistia per i reati commessi negli scontri, e un suffragio universale che allenti la mano di Pechino. 
Le elezioni di novembre indicano che nella città la protesta è vista prevalentemente con simpatia. Ma a protestare sono gli studenti universitari figli di una classe media schiacciata fra l’estrema ricchezza dell’élite e un popolo minuto che a me è sembrato più preoccupato che non succedano troppi guai che d’altro. La classe media è in difficoltà anche nella ricchissima Hong Kong: come ovunque nel pianeta, l’arricchimento in corso beneficia i più poveri e i più ricchi. A Hong Kong la pressione sui giovani è enorme: il costo delle abitazioni per esempio è proibitivo, fra i più alti del mondo. Il ruolo economico storico della città è in dubbio, anche per le tensioni fra Cina e America. Nonostante la ricchezza, i giovani della classe media di Hong Kong sono pessimisti, come tanti loro simili ovunque nel mondo. 
Le élite mantengono una posizione ambigua. Capiscono che la città non può sfidare la Cina, che la considera sua provincia. Pechino tiene seimila soldati in una base entro i confini di Hong Kong, e, per chiarezza, ha tenuto esercitazioni anti-sommossa con altre migliaia di soldati appena fuori confine. La Cina è anche opportunità: Hong Kong è adiacente alla Greater Bay Area, una delle aree di più rapido sviluppo economico del pianeta. Ma parte dell’élite teme il centralismo cinese. Qualcuno ha notato che l’assenza di estradizione fa comodo, nel selvaggio mondo degli affari. Se parte dell’establishment invita i giovani alla calma, un’altra parte, compresi mezzi di informazione di proprietà di magnati locali, soffia sul fuoco della protesta. 
Taiwan, sotto pressione da Pechino, ha interesse a mostrare che il principio «un Paese due sistemi» non funziona. L’Occidente è felicissimo di agitare la propaganda ideologica anti-cinese «pro-democrazia». L’Occidente detesta la democrazia quando i popoli votano partiti anti-occidentali, come in Algeria, Egitto, Palestina, Sud o Centro-America, e non esita a mandare eserciti, o sabotare governi eletti democraticamente quando non sono filo-occidentali; ma celebra con entusiasmo la democrazia quando è arma ideologica contro i suoi avversari. I media occidentali si sono schierati dalla parte delle proteste, presentate in un’aura edulcorata: si sa molto della brutalità della polizia (vera), poco delle devastazioni e delle violenze (altrettanto vere). Un solo esempio: l’11 novembre dei dimostranti hanno dato fuoco a un passante che li rimproverava; pochi media occidentali riportano questa parte della storia (tra questi il Corriere). 
La Cina ha un miliardo di abitanti. Ha avuto un successo unico nel sollevare decine di milioni di persone dalla povertà estrema, ma rimane un Paese mediamente povero. Il prodotto pro capite di Hong Kong è quasi quattro volte quello della Cina. La lettura più diretta delle proteste, al di là delle belle parole dell’ideologia, è semplicissima: Hong Kong è un angolo di Cina reso ricco da accidentali circostanze della storia, e teme di perdere privilegi. 
Ma è altro che mi ha colpito, nei miei brevi giorni nella città-Stato. Gli abitanti sono cinesi. Parlano la lingua del Sud della Cina, mangiano gli stessi cibi, hanno le stesse abitudini. Questo, su cui ha sempre giocato politicamente Pechino, era ovvio da tutti. L’ultimo anno ha cambiato qualcosa. Gli studenti di Hong Kong dichiarano ora con fierezza di non essere cinesi. C’è di più. Oggi chi è nato nel continente si sente malvisto a Hong Kong; arriva ad avere paura. Ho parlato con studenti che preferivano non dire che venivano dal continente. La protesta ha preso carattere identitario. Negozi e banche di proprietà cinese sono stati vandalizzati e bruciati. Gli studenti del continente sono scappati, temendo per la loro incolumità. Navi sono state organizzate per portarli via. Ha giocato anche il fatto che alle università della ricca Hong Kong arrivano facilmente i giovani locali, mentre gli studenti del continente che vi accedono sono molto selezionati, quindi brillanti. La differenza di qualità che ne risulta genera risentimento. 
Non ho abbastanza conoscenze per esprimere giudizi. Queste righe sono solo appunti di viaggio. Non ho simpatia per gli aspetti illiberali e totalitari del sistema politico di Pechino. Il Corriere publica mie opinioni: non credo a Pechino il People’s Daily farebbe altrettanto. Ma oggi quello che si legge sui muri di Hong Kong è: «Io non sono cinese». Nelle parole dei muri non ci sono sogni di società più giusta e più libera; c’è rabbia contro un altro popolo, quattro volte più povero. Più che «democrazia» e «amore per la libertà», quello che ho sentito soffiare a Hong Kong è una intensa vena di nazionalismo, che risuona con il peggio di quanto accade in tante parti del mondo. 
L’umanità è sempre più ricca. È sul punto di affrontare sfide ambientali esistenziali; nel momento in cui è essenziale collaborare, riconoscerci fratelli su una stessa barca, l’unica cosa per cui ci entusiasmiamo è dividerci in gruppetti sempre più frantumati, pur di difendere all’osso piccoli privilegi locali. Invece di guardare ingiustizie o orrori di cui siamo complici, ci scandalizziamo per quelli dei nostri avversari. Pensavo di arrivare a Hong Kong e assaporare un vento di libertà, giustizia, ribellione contro l’oppressione, difesa degli oppressi contro gli oppressori. Non sono sicuro di averlo sentito.