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 2020  gennaio 19 Domenica calendario

12QQAFA10 Ritratto di Gay Talese

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È rimasto l’ultimo dandy di New York, Gay Talese, e indossa abiti ricercatissimi anche quando l’occasione è assolutamente informale. Non si tratta di una provocazione, ma è certamente uno statement, una presa di posizione dichiarata con forza, che rivela molti aspetti del suo animo: il culto dell’eleganza, il fastidio per la sciatteria e, soprattutto, la celebrazione della tradizione vissuta secondo la definizione di Gustav Mahler: «non la celebrazione della cenere, ma la volontà di tenere in vita la fiamma». Esiste un elemento intimo, nell’orgoglio con il quale indossa i suoi completi impeccabili: Gay è figlio di un sarto calabrese, emigrato nel New Jersey a cavallo del secolo. Nel culto esibito della tradizione c’è l’omaggio alla propria famiglia e alla propria terra, rivissuta in maniera idealizzata: di questi temi, e in particolare dell’identità, ha scritto ripetutamente, ma forse nessun libro ne parla in maniera commossa come Di padre in figlio.
A febbraio compirà 88 anni, ma non lo diresti mai dal fisico asciutto e dall’energia che lo porta a uscire ogni sera, mosso da una straordinaria curiosità intellettuale: «I ristoranti sono una fuga, per me come per tutti, ma anche un’occasione di confronto e di studio». Sono i talenti che ne hanno fatto il padre del New Journalism assieme a Norman Mailer, George Plimpton, Truman Capote, Joan Didion e Tom Wolfe. «Non mi interessa la fiction», spiega, «la vita è sempre più ricca e imprevedibile della fantasia».
Del gruppo è colui che ha cercato la verità dei suoi soggetti nei dettagli meno evidenti, proprio grazie alla curiosità che lo costringe a non rimanere mai in superficie. Alcuni dei suoi ritratti sono immortali per la prospettiva inaspettata e la capacità, unica, di esaltare l’umanità dei personaggi ritratti nei momenti di difficoltà: Frank Sinatra ha il raffreddore è il capolavoro del New Journalism, così come The silent season of a hero, con il quale ha ritratto Joe Di Maggio nel momento della parabola discendente della sua carriera. Struggente è poi il modo in cui ha raffigurato Floyd Patterson, al quale ha dedicato 38 saggi. Conoscendo la mia passione per la boxe, Gay una volta mi invitò a conoscerlo, e solo grazie ai suoi scritti riconobbi in quel campione gentile e malinconico l’uomo che era riuscito a diventare campione del mondo ma era dovuto «soccombere di fronte al killer istinct di Sonny Liston, al metodo scientifico di Ingemar Johansonn e alla classe superiore di Mohammad Ali».
Ha sempre avuto un’attenzione nei confronti dei perdenti, Gay, e non è un caso che una delle sue raccolte più belle si intitoli Fama e oscurità. «Ne sono ossessionato, proprio perché questo Paese ha il culto della vittoria», spiega, aggiungendo che nulla come lo sport lo porta a riflettere sull’idea di sconfitta: «Lo sport ha per protagonista gente che perde, perde e perde. Perdono i loro incontri e poi il loro lavoro…». Sembrerebbe un quadro cupo della realtà che lo circonda, ma Gay non è d’accordo con l’affermazione di Francis Scott Fitzgerald secondo cui «non c’è un secondo atto nelle vite americane»: «Questo Paese è spietato con chi perde, ma celebra il comeback, la capacità di rimettersi in sella e vincere. E poi io credo che nessuno sia mai davvero sconfitto, lo devo alle mie radici cattoliche». 
Una volta mi portò a vedere un ristorante a pochi isolati da casa sua: «Vedi? Ora è un ristorante messicano, ma sei mesi fa era una steak house e un anno prima un locale che offriva cucina californiana, aperto con grandi fanfare al posto di una trattoria italiana. Sono falliti tutti e potrei continuare a ritroso: mi chiedo perché. Tutti gli altri locali della zona, anche quelli a poche decine di metri, vanno benissimo e sono diventati istituzioni del quartiere: qui sono cambiate le gestioni, i tipi di cucina, le insegne, e la collocazione è ottima… questo edificio è come Willy Loman, il protagonista di Morte di un commesso viaggiatore, per quanto ce la metta tutta è destinato a fallire».
La crudeltà della competitività americana è un elemento che lo turba profondamente, portandolo a interrogarsi se esista un elemento casuale nella costruzione del successo. «Ho visto persone di talento morire senza gratificazione, e so che la qualità non è sufficiente. Forse non è sufficiente neanche quello che gli ebrei chiamano chuzpah, la consapevolezza arrogante e piena di energia della propria qualità. Mi rifiuto però di credere che sia il caso a dominare le nostre vite, come teorizza Woody Allen».
Di successo Gay ne ha avuto tanto, e vive insieme con la moglie, Nan, editrice per Random House, in una casa di cinque piani in una delle zone più esclusive di Manhattan. Si sono sposati a Roma all’epoca della Dolce vita: «Eravamo stati sedotti da Fellini, ma non ci sfuggiva quello che aveva raccontato: un inferno travestito da paradiso». Ancora adesso, il suo party natalizio è il più esclusivo della città, non solo per il gran numero di celebrità, ma, in pieno stile Talese, per la combinazione di tradizione, famiglia e glamour: sono le figlie Catherine e Pamela ad accogliere il sindaco e gli altri ospiti. 
Ama parlare con chiarezza, e diffida dei sofismi come delle elucubrazioni intellettuali: è un approccio che ha imparato dalla madre, la quale ascoltava con attenzione e si esprimeva con poche parole. Questa impostazione si è rafforzata quando, prima di diventare una firma di punta del New York Times, venne mandato da un editor a scrivere i necrologi: «Non erano neanche quelli delle persone famose, ma quasi tutti di illustri sconosciuti: dovevo concentrare in sette righe un’intera vita. Soffrivo, all’epoca, per quella che mi sembrava una punizione, ma ora sono grato a quell’esperienza: di fronte alla morte bisogna essere sobri ed essenziali». 
Quasi tutto, nella sua carriera giornalistica, si è sviluppato in maniera diversa rispetto a quello che avrebbe pensato, a cominciare dal modo in cui ha scoperto di avere talento sostituendo il suo allenatore di baseball nel resoconto delle partite. Il suo intento era quello di ingraziarsi il coach per assicurarsi il posto nella prima squadra, ma tutti si accorsero che i suoi resoconti lasciavano incantati i lettori. Imparò già in quella prima occasione a iniziare i suoi racconti in medias res, qualcosa di inedito, a quei tempi, per gli autori americani. Ma in tempi brevissimi si accorse anche che il mestiere di cronista gli andava stretto: «Il giornalista scrive con la speranza di arrivare in prima pagina sul New York Times, in modo da dimostrare che quel giorno è vivo, e che lo sarà ancora nei microfilm dei giorni successivi».
È da sempre avverso a ogni forma di correttezza politica, e recentemente si è trovato al centro di polemiche per essere stato l’unico personaggio pubblico a difendere Kevin Spacey e per aver dichiarato di non aver avuto alcun punto di riferimento femminile nella sua scrittura. Fece ancora più scalpore quando rivelò, all’epoca di Onora il padre, di essere diventato amico del capomafia Joe Bonanno. «Bananas», questo il soprannome, «mi ha aiutato molto per il mio libro, e il nostro rapporto si lega a quella esperienza, non mi vergogno affatto di aver cenato con lui». Secondo lo stesso principio, frequentò un campo di nudisti quando stava preparando un articolo su quel mondo, e si limita a rispondere con un sorriso a chi gli chiede delle ricerche all’epoca della Donna d’altri, il libro sulle abitudini sessuali delle donne americane. E a chi gli dice che ogni cosa, anche la più controversa, trova prima o poi una soluzione, spiega: «Il vero problema è cosa fare con coloro che risolvono i problemi una volta che i problemi sono risolti».