Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 19 Domenica calendario

Biografia di Piero Ciampi

Chissà che pensava, affacciato alla sua finestra di via Roma 1, di fronte a quella di Modigliani. Due fantasmi inquieti che un destino grullo aveva piazzato, in tempi diversi, nella stessa strada. Piero e Amedeo: le donne, Parigi, le beffe, il sogno di una fuga. Ma da Livorno è impossibile scappare, nonostante il porto che allude a chissà quale avventura.
Ciampi ci lavorava da ragazzo, tra i moli, pensando alla città martoriata dai seimila poveri cristi morti sotto le bombe della guerra. Nascondeva in qualche ripostiglio dell’anima la vergogna per una madre, Mira, malinconica ebrea del Montenegro, che lui raccontava fosse morta giovanissima e invece avrebbe poi consumato l’esistenza nel manicomio di Volterra. Mira: l’archetipo di tutte le sofferenze, la maledizione di un esilio che per Piero divenne volontario quando andò a cercarla in ogni seduzione, ragazze coi colli lunghi come quelle, irresistibili, dipinte da Amedeo. Si prese il cuore della figlia del comandante della caserma di Pesaro, dove sopportava la naja con Gian Piero Reverberi, che aveva introdotto il livornese squattrinato e pazzo alla corte dei menestrelli genovesi: De André, Paoli, Lauzi.
Cantò per incatenare a sé l’irlandese Moira (così l’aveva ribattezzata, come una musa greca fatale), che non potendone più della sua violenza si rifugiò in Inghilterra con il piccolo Stefano, negandogli per sempre la stabilità di una famiglia; ci provò ancora con Gabriella, che gli diede una bambina. Ma niente. Piero Ciampi era il rissoso, incontrollabile cantastorie che si ritrovava sempre solo con una bottiglia, stordito dal vino e da mille fallimenti. Il più grande di tutti: sperperava i soldi che gli anticipavano le case discografiche e spariva.
A metà dei 60 Paoli lo portò alla Rca, convincendo il gran capo Ennio Melis a dare fiducia a Piero con un assegno di due milioni e mezzo di lire. Appena usciti dall’ufficio Ciampi ghignò: “Gliel’abbiamo messa nel culo”, e si diede alla macchia, senza incidere nulla, all’inseguimento di Mira, Stefano e qualche sorso di troppo.
A Parigi si ritrovava a brindare nei bistrot con Céline, due maledetti viaggiatori al termine della notte, che per qualche motivo obliquo si scoprivano complici, lo scrittore che esortava lo chansonnier a provarci: in Francia lo chiamavano “Piero Litalianò”, senza apostrofo e con l’accento finale. Il “comunista anarchico livornese” garantiva talento ma nessuna applicazione: il suo alter-ego musicale, il maestro Gianni Marchetti, aveva il suo daffare a mettere armonie in quel caos dello spirito che Ciampi traduceva con inarrivabile lirismo e asciuttezza in testi disperati, manifestamente confessori, imploranti, strafottenti, dove chiedeva alla bella di turno di non lasciarlo mentre lui mandava a fare in culo il mondo intero, ben conscio di comportarsi male, come quando mollava il palco dopo cinque minuti insolentendo il pubblico. Lo faceva pure con gli amici: si azzuffava con Califano nei night per un giro non pagato; bisticciava con Carmelo Bene per gli scacchi, esortava Tenco a non partecipare a quel Sanremo ’67 che si sarebbe rivelato mortale. “Ha tutte le carte in regola per essere un artista”, cantava di sé bestemmiando sulla propria dignità, ritrovandosi dentro un fosso all’alba a celebrare il vino. Chiuse gli occhi a Roma quarant’anni fa, il 19 gennaio 1980. Cancro all’esofago. Lo assisteva il medico Mimmo Locasciulli, che incise una versione rispettosa di Tu no, uno dei capolavori ciampiani: “Tu no, tu no, tu no/ I milioni di rinunce/ che ti ho fatto sopportare/ le ho pagate care”.