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 2020  gennaio 19 Domenica calendario

Andare in Nord Corea e non vedere nulla

Ricordo che una volta il racconto poetico di come a Maputo lavavamo collettivamente le mutande al lavatoio mi valse anche un premio per giovani scrittori…». Anch’io ricordo benissimo quel concorso di un decennio fa, dato che ero nella giuria, e la buona qualità di questo libro mostra che non ci eravamo sbagliati nella scelta della vincitrice. Negli anni seguenti Carla Vitantonio mi tenne al corrente delle sue attività: una serie di spettacoli teatrali dei quali il pubblico sembrava non comprendere appieno i meriti e una tormentata vita sentimentale. Poi il nulla. Carla Vitantonio era semplicemente sparita, come se fosse stata ingoiata da un buco nero. Quel buco nero, lo apprendo ora da questo libro, era la Corea del Nord. 
Carla vi giunge nel 2012 poco più che trentenne, per sfuggire al precariato professionale ed esistenziale. È un anno particolare perché si celebra il centesimo anniversario dalla nascita di Kim Il Sung, il «grande leader» e il «presidente eterno» della Corea del Nord; per questo il 1912 è l’anno zero del calendario nazionale, basato sulla rilettura del marxismo in salsa coreana, o Juche. Sotto la luminosa guida del suo erede, il giovane nipote Kim Jong Un, Carla comincia una nuova vita come insegnante di italiano prima e cooperante internazionale poi. In Corea del Nord rimarrà per quattro anni, prima di trasferirsi in Birmania e a Cuba, e per quasi un anno sarà l’unica cittadina italiana nel Paese. Un’occasione unica per raccontare dal di dentro lo Stato forse meno conosciuto al mondo. Della Corea del Nord infatti si parla molto in occasione delle ricorrenti crisi diplomatiche con l’altra Corea, il Giappone o gli Stati Uniti (i tre nemici giurati), ma ne sappiamo poi davvero poco al di là degli esperimenti missilistici, dei test nucleari e delle coreografie del più grande spettacolo di massa del mondo (Arirang). 
Certo anche il suo punto di vista ha limiti evidenti: insieme ai rappresentanti delle Nazioni Unite e a poche delegazioni straniere i cooperanti vivono segregati nel villaggio diplomatico della capitale Pyongyang – costruito negli anni Ottanta da operai di Germania Est e Polonia – dove ogni loro gesto è sorvegliato e registrato da un onnipresente guardiano. Allontanarsi dalla capitale è sempre un’avventura ed è costante il timore di commettere qualche errore e venire espulsi, o peggio (per questo si concorda un messaggio d’allarme rosso per gli amici: «Le tartine sono buone»). Eventi inspiegabili avvengono continuamente, per esempio quarantacinque giorni di quarantena contro un’improbabile epidemia di Ebola in Liberia e Sierra Leone. Più ampiamente il sistema ha calato una coltre di mistero anche sulla vita quotidiana, tanto da lasciare sconsolati: «Niente, non ho capito niente di questo Paese. Come si amano le persone, come discutono, come si proteggono. Cosa fanno la sera dopo cena. Come fanno gli adolescenti a ribellarsi ai genitori. Cosa sognano le ragazze assopite negli autobus cadenti, con la testa appoggiata al finestrino e le camicette sempre pulite»). È come vivere perennemente in un Truman Show realizzato con un budget inadeguato.
Ma quattro anni sono lunghi e inevitabilmente qualche squarcio si apre. Per cominciare anche gli stranieri, pur con tutti i loro privilegi, toccano con mano le difficili condizioni di vita: il freddo nei rigidissimi inverni, la mancanza di acqua ed elettricità, l’accesso a Internet lentissimo e censurato. In queste condizioni il Master in diplomazia serve a poco, più utile un passato di occupazioni e di vita in alloggi fatiscenti. Nel centro di Pyongyang la fiamma della Torre del Juche, l’unico edificio che rimane illuminato per tutta la notte in un Paese perennemente al buio, indica un luminoso futuro, ma in larga misura lo si costruisce a mano con molto lavoro e semplici attrezzi (in mancanza di tosaerba a motore, si regola il prato con le forbici). I bisogni elementari assorbono gran parte del tempo e delle energie, anche per questo si smette presto di farsi troppe domande.
Che cosa s’impara in questi quattro interminabili anni? La vita in Nord Corea ha una sua stagionalità, naturale (gli albicocchi in fiore) e ancor più politica. Come in una sorta di monopoli psichedelico, ogni dodici mesi si passa e ripassa per le stesse situazioni. In inverno le probabilità di una crisi internazionale sono più elevate e il Paese si compatta di fronte all’ostilità, vera o presunta, del mondo. È il momento peggiore per gli stranieri, ma non dura. Segue un disgelo reale e metaforico, la paranoia lascia spazio a imponenti lavori collettivi e alla estenuante preparazione dei giochi di massa di maggio, la più importante manifestazione pubblica del Paese.
In Corea del Nord una persona su quattro è legata alla polizia segreta ma il regime non utilizza solo minacce e costrizioni; è anche sorprendentemente abile nel far passare la sua stralunata narrazione delle eroiche lotte passate e degli immancabili trionfi futuri, preparati col lavoro di tutti. La dimensione collettiva trionfa su ogni individualismo. L’assoluta ignoranza di quanto avviene nel resto del mondo naturalmente aiuta a imporre questa visione ma c’è anche una qualche forma di partecipazione (senza scomodare parole come consenso). 
Infine la Corea del Nord è un Paese stravagante e arretrato ma non immobile. Chi, come l’autrice, resta abbastanza a lungo s’accorge con meraviglia dei cambiamenti. Dopo l’inizio del nuovo millennio, l’alimentazione è migliorata, le macchine per la strada sono sempre più numerose, qualche luce in più rischiara la notte, si ammirano le prime vetrine, la presenza delle uniformi si fa meno oppressiva…