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 2020  gennaio 19 Domenica calendario

I 90 anni di Franco Loi

Franco Loi, poeta lombardo per scelta, cosmopolita per ispirazione, è arrivato al traguardo dei 90 anni conservando il sentimento della meraviglia: «Fratant che la vûs fina del puèta / la passa come un sogn che l’è pü lì» («Mentre la voce sottile del poeta / passa come un sogno che non è più lì») scrive in Liber (1988), la raccolta che chiude il secondo decennio di attività. Ed è sorprendente notare quanto un singolo frammento, preso quasi a caso da un corpus ormai vastissimo, aderisca a un progetto complessivo, la parte combaci perfettamente con il tutto. Si riconoscono alcune costanti della poetica loiana. La poesia è un miracolo effimero, durevole e passeggero insieme («Fratant» – «passa»). Il poeta è un «dicitore» che si fa carico di raccogliere l’esperienza di altri; nella sua voce sottile («vûs fina») si cela, appunto, una volontà di annullamento, un desiderio di trasparenza, ma nella gentilezza anche la speranza di essere ascoltato. Infine, ed è il messaggio più forte, si afferma la similitudine di poesia e sogno, la possibilità di attingere a un livello più profondo dell’essere. Tuttavia, per quanto possa apparire contradditorio, la poesia è il sogno di un non sognatore. Franco Loi ha spesso rinnegato una concezione romantica che intende la poesia come evasione, non solo dalla realtà, ma da qualsiasi forma di potere. Poeta e lettore sono invece legati dall’impegno reciproco di indagare la realtà, di osservare il «mondo davanti agli occhi» e portarlo nel cuore, come recita un verso di Pasolini.
Da questo sogno ad occhi aperti deriva una serie di scelte tematiche e stilistiche. Innanzitutto la trasformazione di Milano in un soggetto dialogante, che invoca ed è invocata dal poeta. Strade, persone ed elementi del paesaggio urbano contribuiscono a rendere oggettiva la visione del poeta. Poi la preferenza, almeno in una prima fase, per il genere epico-narrativo che meglio assembla una coralità di voci, e al tempo stesso permette al poeta di modulare un’ampia gamma di registri, dal patetico al grottesco, dal ricordo all’invettiva. Momento più alto e più ambizioso, in questa fase, rimane Stròlegh (1975), la raccolta che legittima il sermo humilis a lingua letteraria, apre la vena ai libri successivi e, dopo I cart, illustrato dall’amico Eugenio Toniolo nel ’73, spinge Loi a proclamarsi poeta: «Nel luglio-agosto del 1971 ero un poeta (…) In quei due mesi viaggiai molto, amai intensamente, frequentai molta gente, finii Stròlegh, scrissi TeaterSogn d’attur, e circa un centinaio di liriche». Cito dalla nota di Teater (1978), in cui si intuisce come Loi abbia percorso le esperienze della vita – giacché occasioni suonerebbe troppo aulico – alla ricerca non solo di sé ma di un’armonia con il mondo, e di una storia collettiva.
La sua, personale, è iniziata nel ’37, anno in cui con la famiglia, il padre sardo e la madre originaria di Colorno, in provincia di Parma, si sposta da Genova a Milano. Risiede in vari quartieri popolari, da Ponte Seveso a Casoretto, e si immerge nel brulicante proletariato urbano. Stròlegh racconta questa discesa infernale in 42 passaggi e continui slittamenti temporali, in cui gli orrori della guerra si confondono alla miseria e alla fatica del lavoro operaio. «Ostia Milan, / inferna che repét» («Ostia, Milano, / inferno che si ripete», XXXIV) è la formula che spalanca l’abisso nella parte conclusiva. Luogo simbolico per eccellenza è però Piazza Loreto (IX), dove Loi ha assistito, da bambino, alla fucilazione dei partigiani e allo scempio sul corpo di Mussolini. Questa sovrapposizione di ricordi lo rende un luogo drammatico e turpe: «Luret, Luret, da la citâ scumparsa, / teater, fâ de sàngur e d’imbestiâss» («Loreto, Loreto, dalla città scomparsa / teatro fatto di sangue e di imbestiarsi» in Sogn d’attur, XVII) costringendo il poeta a continue rivisitazioni, non solo in versi ma anche in prosa (penso soprattutto al racconto 10 agosto 1944, pubblicato nel volume L’ampiezza del cielo nel 2001).
Accolto con entusiasmo dai critici (tra i primi, Isella, Brevini, Mengaldo), con Stròlegh, Loi riceve la consacrazione del poeta Franco Fortini. A lui si deve l’invito a leggere Loi «contro il suo dialetto», cioè a dispetto di quel velo nostalgico e tenero che la scelta linguistica poteva suggerire. Fortini salva Loi, fin da subito, dalla schiera dei «dialettanti» (la definizione è di Giudici), e cioè dilettanti dialettofoni che negli anni ’70 occupano per protesta gli scranni della poesia. 
Sebbene agiscano in Loi spinte anarchiche contro la tradizione e i maestri (anche della linea dialettale), la sua opera testimonia quanto ricercata, matura e consapevole sia l’invenzione del suo linguaggio poetico. 
Nel milanese, lingua adottiva, Loi è riuscito a esprimere sia la tendenza verso il basso («cumedia» è infatti termine ricorrente e ambiguo), sia la tensione verso l’alto, si pensi alla ricerca di un «Paradìs» in Angèl (1981); o alla poetica dell’incorporeo che rappresenta un filone piuttosto cospicuo: da L’Aria (1981), a Isman (2002) fino all’Amur del temp (1999), riedito recentemente da Crocetti (2018). Ma non solo. Dietro l’apparente compattezza e impenetrabilità, Loi ha continuato a scavare, arricchendo il milanese con innesti dialettali di altri luoghi, il genovese e il colornese sempre in Angèl, varie lingue straniere e citazioni colte. In Verna (1997) è riuscito persino a rendere il dialetto lingua d’arrivo in libere traduzioni dai classici. L’arteficio è l’altra faccia della sua semplicità, quella che riduce al minino i segnali d’autore: sì agli apparati perché spiegano, ma niente titoli ai testi, se non i rari casi, solo fiato e ritmo. Si intuisce allora che il milanese sia per Loi una nebbia dell’anima, lo specchio opaco in cui, senza sentirsi vate, ma solo «figlio del passato», continua a proiettarsi nel futuro, a cantare la bellezza e l’amore. 
«Sù pü né quèl che sun ne quèl che seri / su nient de quèl che me recorda, / e alter me vègn sü, com’una storia / che vègn de la memoria del cantà» («Non so più quel che sono, né quel che ero, / non so niente di quel futuro che già mi ricorda, e altro mi vien su, come una storia / che torna dalla memoria del cantare», Verna).