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Uncanny Valley si svolge a San Francisco, «che non si era del tutto adeguata all’ascesa della cupa triade tech: capitale, potere, e blanda mascolinità eterosessuale». Parla dei danni da Silicon Valley: «La fede cieca in quegli ambiziosi, arroganti giovani uomini dai sobborghi era diventata una malattia globale». Racconta dei venti-trentenni: «Vendersi, per promozioni, sponsorizzazioni, partnership, sarebbe diventata la prima aspirazione della nostra generazione, la migliore chance di essere pagati». Spiega il maschilismo delle startup, dove si fa «terapia d’urto a base di misoginia interiorizzata», ma è solo una parte della storia.
Il libro di Anna Wiener, uscito martedì negli Stati Uniti, molto promosso, ultrarecensito, già discusso, benissimo costruito dall’autrice e dalla sua editor Dayna Tortorici, è molte cose. Una specie di Vita agra incrociata col Diavolo veste Prada (o Google); un libro di memorie; un romanzo di formazione negli anni della presa del potere digitale, dal 2010 in poi. E un’analisi romanzata della fine dell’eccezionalismo tech, dell’idea che Google-Facebook eccetera fossero entità speciali, che avrebbero cambiato il mondo in meglio. La Uncanny Valley del titolo è la Silicon Valley, ma è anche un’ipotesi di robotica, il picco in cui le persone vedono una macchina molto somigliante all’essere umano e provano disagio. Ci arriva, l’autrice-protagonista, dopo cinque anni e tre posti di lavoro: una startup editoriale dove nessuno legge, una compagnia di web data in cui gli impiegati posso vedere proprio tutto della vita degli utenti, una megacompagnia dove fa la moderatrice dei post e si lascia sfuggire, nel 2016, le notizie false anti-Hillary Clinton del Pizzagate.
All’inizio del libro Wiener, trentaduenne scappata a 25 anni da New York, sembra un’eroina da romanzo rosa da ridere. Per fortuna l’imprenditore genio con cui duella su Twitter e a cena non diventa il suo fidanzato; diventa però miliardario firmando dei contratti su un tablet tirato fuori dallo zainetto mentre passano sotto un cavalcavia. E il vero fidanzato lavora nella robotica; ma gli è vietato raccontare cosa sta facendo. «Se avessi scritto un romanzo, lo avrebbero preso per satira», ha detto Wiener.
Fa ridere comunque, specie quando racconta gli eccessi dei giovanissimi neoricchi. Cacce al tesoro aziendali obbligatorie in cui si corre per la città cercando monumenti, facendo selfie saltando a mezz’aria, creando «piramidi umane al centro di Union Square», compleanni in ranch, con tutti gli ingegneri della compagnia in tenuta equestre senza cavalcare. Feste stile Burning Man in cui «cinque o sei persone andarono a far sesso in una cella frigorifera. Altre avevano preso ketamina e ballavano lentamente, o si rilassavano sulle poltrone in ecopelliccia nella cupola geodesica». E dialoghi filosofici: a un rave, alcuni venture capitalist discutono il reddito universale, convinti che l’intelligenza artificiale distruggerà il lavoro e porterà alla terza guerra mondiale, mentre economisti libertari amici loro lanciano simpatiche provocazioni online; propongono analisi ottimistiche della violenza razziale; lodano l’uso del patriottismo dei governanti nigeriani; valutano la conversione in massa al mormonismo dei ceti svantaggiati per favorire la mobilità sociale. Rapidamente, Wiener capisce come quel nuovo mondo coraggioso possa essere più reazionario dei prozii che votano Trump, o Giorgia Meloni. E perché tanti tech worker meno alti in grado stiano diventando socialisti.
«La dimensione giocosa maschera i lati oscuri di queste compagnie», dice Wiener. Che non le chiama col loro nome. C’è «il social network che tutti odiano» (Facebook), il «superstore online» (Amazon), la «piattaforma millennial-friendly per affittare stanze da letto di estranei» (Airbnb), e così via. L’editor di Wiener aveva notato come le donne che scrivono dei loro posti di lavoro vengono spesso minacciate dagli avvocati delle aziende, mentre agli uomini non succede quasi mai. Mentre, a molti maschi di San Francisco e Silicon Valley capita in questi giorni di criticare il libro di Wiener. Elogiato da molti, è stato subito già opzionato dalla Universal, dal produttore di The Social Network. E stroncato da Wired e altre testate tech per la sua vaghezza, il suo dire senza prendere posizione. Ma forse anche per aver smontato definitivamente — anche se con un libro furbo, stiloso e attento a non fare nomi — la mitologia degli unicorni e delle startup. E i suoi eroi, con felpe uguali e simili ossessioni alimentari e ginniche, padroni dell’universo del tipo distopico-compulsivo. Di quelli che la mattina dopo bevono «un liquido viscoso rafforzato da elettroliti — venduto come antidiarroico infantile — per smaltire le loro sbronze». Ora si attende con fiducia il film.