la Repubblica, 19 gennaio 2020
Le storie delle vittime del volo Teheran-Kiev
Hanno evitato l’escalation di un conflitto internazionale. Hanno riacceso un movimento di protesta e indotto chi aveva per anni letto veline di regime a dimettersi in nome della verità. Sono martiri che nessuno riconoscerà. La patria della maggior parte di loro preferisce dimenticare, per vergogna, il gesto che li ha eliminati. Il resto del mondo li ha archiviati come una nota a margine di una pagina che racconta eventi maggiori, aventi protagonisti dai nomi più risonanti. I loro sono troppo lunghi, impronunciabili per chi non abbia familiarità a superare le asperità delle consonanti e a terminare con quelle misteriose “h”, aspirate o mute come il silenzio che li circonda. Sono le 176 persone salite sul volo ucraino PS752, che doveva collegare Teheran a Kiev, per portarne poi 138 in Canada, dove vivevano: 167 passeggeri, 9 membri dell’equipaggio, 82 iraniani, 63 canadesi, 20 ucraini, 4 afghani, 4 britannici, 3 tedeschi. Numeri, bandiere, fantasmi. Conosciamo gli eroi del volo United Airlines 93 (quelli di “Let’s roll") che evitarono (salvo altri interventi) fosse colpito il terzo bersaglio dei kamikaze dell’11 settembre. Abbiamo composto una Spoon River per ogni aereo precipitato: Ustica, il volo Air France 747 da Rio a Parigi disintegrato in Atlantico, il Twa 800 che affondò anche la sua compagnia. Ci sono inevitabili ricorrenze: quelli che non dovevano essere a bordo e quelli che hanno rinviato la partenza all’ultimo istante; gli sposi che, quando se ne ritrovano i corpi, i medici legali identificano perché hanno quel che resta delle mani intrecciate e quelli con il presentimento, l’alito freddo del futuro soffiato sul collo mentre erano in fila, ma hanno proseguito, fatalisti.
C’erano anche questa volta, tutti quanti: dentisti, ingegneri, studenti, bambini o promesse di esseri umani. È stata registrata come vittima più giovane Kurdia Molani, di un anno appena, ma è un’opinione: c’erano anche donne incinte. La famiglia Rahimi, da Toronto, si era fatta fotografare sotto l’alberodi Natale, indossando cappelli rossi. I genitori avevano entrambi 38 anni. Lui lavorava all’università. Lei produceva pantaloni da yoga ricavando il tessuto da bottiglie di plastica. Il figlio Jiwan, 3 anni, che parlava tre lingue e sapeva già leggere, le aveva chiesto di cucire per lui un costume da avocado e continuava a proporle di andare all’ospedale per farsi tirare fuori il fratellino, invece di aspettare fino a marzo.
Sentiamo il dovere di ammantare d’indulgenza i congedi, ma era oggettivamente un carico di umanità speciale: Zahra Naghibi, 44 anni, ingegnere, era una soave ambientalista che stava perfezionando un sistema di agricoltura al chiuso; Fereshteh Dizaje aveva lasciato il lavoro in uno studio d’architettura, rinunciando alla carriera per dedicarsi all’adorata figlia e ora, soddisfatta, tornava dal suo matrimonio; Farzaneh Naderi, 38 anni, seduta accanto all’undicenne Sadr, era da tre anni volontaria in un centro per bambini disabili e autistici. Non esiste criterio: nel 1927 Thornton Wilder pubblicò Il ponte di San Luis Rey in cui un frate si interroga sul motivo per cui il destino (o la Provvidenza) spinge cinque persone, proprio quelle, ad attraversare il collegamento che regge da un secolo nell’istante in cui cede. Non trova una ragione: una colpa o, all’opposto, un segno di grazia che richiami al cielo. Così come non ci sono coincidenze che significhino qualcosa: siamo noi a cercarle, non quelle a trovarci. Mohammad Elyasi, 28 anni, ingegnere, aveva discusso una tesi sulle turbolenze; Faraz Falsafi, 32 anni, pure lui ingegnere (ultima fotografia con un papilllon arancio e una rosa bianca, alle nozze della sorella), era campione di Robocop Rescue Simulation, una gara per lo sviluppo di automi per la ricerca e il salvataggio in caso di catastrofi. Anche il presentimento è una scommessa sui grandi numeri: fra 176 schiene 2 brividi passano. Mehdi Eshaghian, 24 anni, studente, si è congedato dall’amico di una vita dicendo: «Forse non ti vedrò più e, se così fosse, addio»; Mojtaba Abbasnezhad, 26 anni, lui pure studente, ha scritto un ultimo tweet prima di spegnere il cellulare, questo: «Ho appena predetto lo scoppio di una guerra, perdonatemi se in me avete visto qualcosa di buono o di cattivo». In un discorso all’Università di Ottawa il tredicenne Ryan Pourjam ha ricordato il padre Mansour, 53 anni, tecnico di laboratorio, e commosso tutti dicendo: «Mi direbbe che andrà tutto bene. E così sarà». Nel modo imperscrutabile in cui le cose accadono quell’uomo sorridente, ripreso con il bambino sulle spalle davanti a un lago, avrebbe avuto ragione. I 176 martiri involontari hanno corretto il destino. L’esplosione del loro aereo ha dimostrato ai guerrafondai iraniani di avere le carte per un bluff, come accadde al loro vecchio nemico iracheno: colossi di sabbia. Ha indotto la gioventù a chiedersi se davvero vuole affidare il proprio avvenire a chi ti costringe a emigrare in Canada per trovare, parole di Firouzeh Madani, 54 anni, medico, «cose che lì si danno per scontate: libertà e rispetto». Ha fatto dire basta a tre giornaliste televisive di Teheran: la realtà è già abbastanza amara per doverla anche avvelenare con la falsità. E queste sono cose che hanno volto per il meglio.