Tuttolibri, 18 gennaio 2020
Intervista a Barbara Alberti
Non bisogna credere alla vecchiaia che ti raccontano gli altri, devi scoprire la tua. Io sono come un’adolescente senza futuro, in uno sturm und drang totale, e le voglio fare tutte». Barbara Alberti, per sua definizione «una casalinga che scrive», lo dice ridendo di gusto mentre prepara le valigie per entrare nella casa del Grande Fratello Vip, l’ultima della sue «burle», dopo il debutto al cinema a 76 anni nel film di Ozpetek La dea fortuna (in cui fa la parte di una anziana madre perfida) e il romanzo Mio Signore. Alla religione è tornata spesso nei suoi libri, pur non essendo credente per colpa di una «nonna fondamentalista armata di rosario»: «Me lo ha sempre descritto come minaccioso e spione, quanti schiaffi ho preso nel suo nome! Ci diceva che tutto era peccato: amare, pensare, ridere, dovevamo obbedire e tacere». Questa volta, per la collana Passaparola di Marsilio in cui gli autori sono chiamati a confrontarsi con un romanzo del passato, ha scelto di ispirarsi a La Madre Santa di Leopold von Sacher-Masoch, che alla ricerca del piacere attraverso la sofferenza ha legato il suo nome: in Mio Signore racconta la storia di Maria, una derelitta di Umbertide (dove la scrittrice è nata) che in Andrea, uno più derelitto di lei, pure antipatico, vede la reincarnazione di Dio e comincia a venerarlo.
Cosa lega la campagna ucraina di fine ‘800 di Sacher-Masoch al suo paesino umbro degli anni ’60?
«Rende "consanguinei" i due romanzi un sentimento arcaico, l’eresia paesana, l’urgenza di fede che è in realtà bisogno d’amore, una comicità che pervade sogni e realtà, il tentativo di deviare dal sentiero obbligato della vita. Il libro l’ho letto la prima volta una ventina di anni fa e poi ci sono tornata spesso, Sacher-Masoch è un sognatore eversivo e profetico, umanamente adorabile».
Nella «Madre Santa» il giovane contadino Sabadil si innamora di Mardona, capo di una setta in cui è adorata come Madre di Dio sulla terra, e per lei arriverà a farsi crocifiggere. Qui la situazione è rovesciata.
«Mi piace enormemente il personaggio di Sabadil: capisce che Mardona bada solo al proprio potere ma non gliene importa, lui ama. Anche la mia Maria finisce male, ma l’amore la innalza: vince perché non cede rispetto alla sua fede. Amo le vittime in amore, perché seguono la loro strada».
Per dirla con parole sue, «la felicità è quando un sadico incontra un masochista»?
«Se uno è veramente felice, anche se solo per un istante, perché deve fare i conti con i propri limiti, è comunque una persona buona. E’ felice perché è in contatto con gli altri, sa di non essere solo. Le persone buone sono di un fascino pazzesco. Io di cattivi felici non ne conosco, il male lo paghi».
Uno dei presupporti del progetto è che nel libro gli autori parlino del mondo e di sé, di lei cosa c’è in queste pagine?
«Nessuna perversione. Ci sono i personaggi, anzi le persone, a cominciare proprio da Maria. Esiste in tante donne che ho conosciuto, che vivono nell’ombra e mantengono trascendenza e dignità, che operano il bene in silenzio. È una ragazza sola, che ha letto le vite dei santi e ha capito che dolore e umiliazione possono essere via di elevazione. Anche i personaggi negativi li conosco».
Andrea lo è?
«Lui è un uomo come sono tanti uomini oggi. Vive di materia, non sa stare alla pari. Io ho rapporti solo con le persone che sanno stare alla pari. I maschi picchiano le moglie gratis e poi vanno a farsi menare a pagamento. Lui si fa mettere sotto e poi non vede l’ora di fare altrettanto. Ma è toccato dalla grazia: Maria crede che sia Dio, e lui lo diventa. Alla fine vola».
Nonostante la nonna scrive storie intrise di fede.
«Perché "ho incontrato" San Francesco. Quando ero bambina siamo andati a vivere ad Assisi, fu una rivelazione. Un santo che si definiva un "pazzo di Dio", che rideva di sé e aveva fatto del riso la sua preghiera. Questa è la grande tenerezza del libro, il ridicolo di noi umani. I personaggi sono immersi nel ridicolo più pietoso».
Da dove nascono i loro discorsi teologici in umbertidese?
«Mi sono divertita da matti! I dialetti rappresentano una espressione istintiva, non obbligata dalla grammatica, dal "bel parlare". Sono la nostra grande risorsa, sono elettrici, mentre l’italiano va scrollato come un avaro, è un filo teso senza scosse».
Nel libro ci sono tutti i vizi capitali.
«Se non c’è la catarsi, cosa è la scrittura? Più ti lasci andare meglio è».
Quale è il suo?
«La disattenzione. Più che un vizio è un peccato, lo pago caro. Non vivo attentamente, è una forma di immoralità, di cinismo. Però mi interesso al prossimo: mi viene da soccorrerlo, anche se sono distratta».
Un tema della storia è proprio la cura.
«Non la dobbiamo perdere mai. Un conto è essere schiave, altro essere accudenti».
I libri e il saper ricamare hanno reso la sua protagonista una donna libera.
«Il ricamo è il simbolo di tutte le creazioni umane. Fare qualcosa con le proprie mani, produrre il bello, è un grande riscatto. Il mio artigianato è la scrittura, non lo facessi penserei tutto il giorno a me e non potrei che vedere le mie bassezze. Ormai ho un piede nella fossa e ho capito che certi difetti non me li toglierò più. Sono buona solo a scrivere e a pulire casa».
Come Maria!
«Dopo aver reso splendente il bar in cui lavora, esce un attimo e poi rientra, facendo finta di non sapere che è pulito per meravigliarsi due volte: ecco, quella sono io. Mi dà un gusto pazzo. Metto in ordine e mi sembra che tutto, anche in testa, vada a posto».
Piccoli piaceri...
Sa, io sono una di buona compagnia perché sono una spensierata. Mi piace voler bene ed essere voluta bene, sono viva perché ho gli amici, che sono una cosa pazzesca. Certo c’è la famiglia, ma le confesso che ho avuto due figli solo perché mi sono distratta: non ne metti al mondo, se pensi che fai nascere uno che poi deve morire».
Ha paura della morte?
«Tantissima, sono esterrefatta, la trovo inaccettabile, ho paura di non essere più. C’è anche una bellezza in questo, ma è una bellezza guascona, in realtà fa schifo. Ogni morte è un rimorso. Io ho capito vent’anni dopo la morte di mia madre, con cui non sono mai andata d’accordo, come avrei potuto amarla».
Si sente in colpa?
«Non ho sensi di colpa, perché per me non esistono. Esistono le colpe. Sono stata stupida, lei era una "carogna", ma spiritosissima, e su questo ci saremmo potute intendere. Anche mio padre non l’ho amato come avrei dovuto, ma poi l’ho messo in tutti i libri».
Anche in questo?
«Sì, è Alvaro, quello "troppo bello per giocare a poker". Lui ha sognato tutta la vita che io imparassi, ma per me è troppo difficile. Io posso arrivare a Scopa, a Rubamazzo».
Poteva tornarle utile nella casa del Grande Fratello. Quanto spera di restare?
«Almeno un mese. Sulla carta c’è gente simpatica, lì sei condannato all’altro. E’ come il dramma di Sartre A porte chiuse, dove c’è un giovanotto che all’inferno pensa di trovare diavoli e fuoco, invece si ritrova chiuso in un appartamento con due ragazze. Una è lesbica e bellissima, lui e l’altra se ne innamorano. Cominciano con il raccontarsi storie, parlare di loro stessi e finiscono con odiarsi senza quartiere, una tortura. Solo lì lui capisce: "Non ci sono fuoco e diavoli, perché il vero inferno sono gli altri". Ecco, il Grande Fratello è "l’inferno sono gli altri"».
Allora un po’ masochista lo è!
«Sono un’ottimista paranoica, una che si immagina gli orrori, ma in fondo si aspetta sempre il meglio. Il Grande Fratello rispetto alla vita è un paradiso, perché è teatro: nella vita ti odiano gratis, lì a pagamento. E poi ti può far male davvero solo qualcuno cui vuoi bene».