Tuttolibri, 18 gennaio 2020
Intervista alla scrittrice Cathleen Schine
Il titolo originale del nuovo romanzo di Cathleen Schine è The Grammarians, ed è il modo in cui l’autrice presenta le sue protagoniste, esperte di linguistica. Daphne e Laurel Wolfe, questi i loro nomi, sono gemelle, e sin da bambine hanno utilizzato un proprio linguaggio, poi, da adulta la prima diventa una giornalista, mentre la seconda una maestra d’asilo che scrive poesie.
Per tutta la vita le due donne continuano ad avere un rapporto intimo, e per molti versi ossessivo, con l’uso delle parole: se Daphne dedica la propria attività pubblicistica alla preservazione della forma, esaltando l’eleganza formale di ogni parola, Laurel celebra invece il linguaggio stravolgendone il senso ultimo e il ritmo. Il rapporto tra le due gemelle, caratterizzate entrambe da una folta e vistosa chioma rossa, diviene nel libro il confronto tra regola e libertà, rigore e tolleranza. In una dimensione spirituale potremmo spingerci sino a parlare di ragione e fede, in chiave puramente artistica e filosofica, di apollineo e dionisiaco.
Il fascino di questo libro pieno di verve, composto da capitoli preceduti da auliche definizioni di dizionario, è nel modo in cui la Schine riesce ad affrontare temi alti mantenendo il tono della commedia, e dimostrando che la leggerezza, quando è accompagnata dall’intelligenza, è uno dei metodi più sicuri per raggiungere la profondità. In uscita in Italia per Mondadori con il titolo Io sono l’altra, il romanzo risulta il più riuscito e appassionante della scrittrice dai tempi della Lettera d’amore, e bisogna dar credito a Stefano Bortolussi che è riuscito a tradurre con efficacia i doppi sensi e le sfumature della madrelingua inglese. Crescendo d’età il dialogo tra le due gemelle diviene conflittuale, e il libro inizia dopo un momento di rottura, che trova un possibile riavvicinamento grazie alla passione di entrambe per il termine profluvio. Lauren, che è nata diciassette minuti prima di Daphne, odia quel brevissimo lasso di tempo al punto da rinfacciare alla sorella: «tu hai vissuto diciassette minuti senza di me. Io non ho mai vissuto senza di te». Per aggiungere un altro tassello alla psicologia delle due donne, la Schine scrive: «Laurel faceva tutto per prima. Nel bene e nel male. Era la prima a entrare nell’acqua gelida in spiaggia, fu la prima a varcare la soglia dell’asilo nido e poi della scuola materna. E ogni anno da allora sarebbe stata la prima a entrare in qualsiasi aula scolastica. Era la prima ad andare a letto e la prima ad alzarsi al mattino».
«C’è sicuramente qualcosa di me nelle due donne, anzi molto» mi racconta nell’appartamento newyorkese, dove abita tuttora la madre, «e questo passaggio in cui mi sento superata da altri, e forse inadeguata, racconta un disagio che provo spesso, anche se non ho una gemella».
Si identifica più con Lauren o Daphne?
«Credo di essere equidistante: se devo risponderti sinceramente, mentre andavo avanti con la scrittura mi rendevo conto che il personaggio con il quale condividevo passioni, speranze e paure è in realtà la madre, la quale si avvicina, gradualmente, alle due figlie e cerca di capire cosa significa essere gemelle. È il suo sguardo che affronta, insieme al mio, cosa significhi essere identiche ma diverse. Voglio anche aggiungere che in verità sia Daphne sia Lauren sono un po’ ideologiche».
Lauren in realtà professa la libertà, a partire dal linguaggio…
«Il suo dogma è essere a ogni costo anti-dogmatica, e trasformare la libertà in un manifesto».
L’amore ossessivo delle due donne per il linguaggio spaventa lo psichiatra, che altro non è che lo zio Don.
«Non è così strano in alcune famiglie ebraiche. Lo zio Don è un liberal molto progressista che rimane turbato dal loro modo di relazionarsi alla scrittura, e in generale al mondo. Mentre preparavo il libro ho scoperto che in passato sono state condotte ricerche inquietanti ed estremamente immorali sui gemelli, ad esempio separandoli alla nascita per poterne studiare le rispettive attitudini».
Entrambe le donne si sposano con uomini che appaiono più deboli di loro.
«Non so se sono in realtà più deboli: hanno capito che il modo migliore per poter convivere è prendere il loro modo di essere con filosofia, e questa è saggezza più che debolezza».
Lei descrive i nomi delle protagoniste due modi per definire una sola divinità minore.
«È soltanto una battuta scherzosa, in realtà ho faticato molto per trovare i due nomi, non sai quanti ne ho scartati. L’ispirazione mi è venuta due estati fa, quando facevo una residenza per scrittori ad Assisi. Amo la mitologia greca e sin da bambina sono rimasta affascinata dal mito di Apollo e Dafne. Un dio che vuole a ogni costo una donna, e lei che per sfuggirgli si trasforma in una pianta d’alloro».
Come le è venuta l’idea del romanzo?
«In origine volevo una satira letteraria su due traduttrici che litigano riguardo al modo di tradurre una singola parola. L’idea mi era venuta leggendo un saggio di Tim Parks su Elena Ferrante, nel quale si spingeva a dire che il successo internazionale di Elena Ferrante era dovuto in buona parte alla magnifica traduzione di Ann Goldstein, la cui lingua a suo parere è persino migliore di quella originale. Mi resi conto però che si trattava solo di uno spunto di partenza, e che inoltre io conosco unicamente l’inglese. Finché un giorno mia moglie Janet mi ha ricordato la storia di due gemelle giornaliste che avevano delle rubriche popolarissime di consigli al pubblico su giornali rivali. C’è stato un momento in cui queste rubriche uscivano su 1.200 pubblicazioni e si firmavano «Dear Abby» e «Ask Ann Landers», detestandosi visceralmente. E il modo in cui erano state chiamate dai genitori dice già molto: la prima era Pauline Esther Friedman e la seconda Esther Pauline Friedman. In quel momento ho capito in che direzione dovevo sviluppare la mia idea originaria».
Perché ha deciso di ambientare il romanzo negli Anni Ottanta?
«Questa è la parte in cui mi riconosco maggiormente: sono gli anni in cui ho lavorato come giornalista al Village Voice e poi come editor a Newsweek. Cercavo autenticità, partendo dalla consapevolezza, anzi dalla rassegnazione che ho una pessima memoria».
La rubrica giornalistica di Daphne, intitolata «La Lettrice Pedante», sembra una parodia di quella che aveva William Safire sul «New York Times», intitolata «On Language».
«Non posso negarlo: era una rubrica straordinaria e l’amavo molto, anche se ero estremamente distante dalle idee politiche di Safire. Non diversamente da quanto professava sul linguaggio, era molto conservatore. Ma nello stesso tempo aveva il coraggio di mettere in discussione se stesso: passò dall’appoggio a Bill Clinton alla definizione di Hillary come "bugiarda patologica." Il tutto sulle colonne del New York Times, dove in seguito arrivò a schierarsi anche per la guerra in Iraq. Anche quando mi infuriavo per le sue idee ne ammiravo la raffinatezza culturale, e di questi tempi sono nostalgica dei conservatori di questo tipo».
Ritiene che il linguaggio aiuta a capire il mondo, o viceversa è un nostro strumento con il quale ci limitiamo a definirlo?
«I linguisti hanno opinioni contrastanti su questo punto. Personalmente penso che il linguaggio influenzi il modo in cui vediamo il mondo».
Lei sostiene di essere equidistante ma affida a Laurel una delle battute chiave: «comprendere è amare».
«Purtroppo credo che non sia sempre vero, anche se è vero il contrario: l’amore è la forma più alta di conoscenza».
È vero che la sua parola preferita è «altro»?
«Sì è una parola che amo, e per molto tempo il libro doveva chiamarsi L’Altra, perché è un termine che vale per entrambe le protagoniste. Ma la mia passione per questa parola va ben oltre, e nasce dal fatto che tutti siamo "altro" per chiunque. Questo mi porta a celebrare il concetto di identità e diversità, specie in un momento come questo, dominato dall’intolleranza».