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 2020  gennaio 18 Sabato calendario

L’uomo dietro Carosello dimenticato dalla Rai

Vito Molinari ha diretto 500 Caroselli e 2000 trasmissioni, compresa la prima in assoluto della televisione italiana, il 3 gennaio 1954. Naturalmente Rai. Tra i suoi programmi, Un, due, tre con Tognazzi e Vianello; L’amico del giaguaro , con Corrado, Bramieri e Marisa Del Frate; la Canzonissima con Dario Fo e Franca Rame; La via del successo con Walter Chiari ; Macario più , Delia Scala story , le prime domeniche con Paolo Villaggio e tanto teatro leggero, tante operette.
Il regista, autore, scrittore, ha appena compiuto 90 anni, e ha fatto due feste, una a Milano e l’altra a Roma. Di anni ne dimostra almeno venti di meno, ha una vitalità e una memoria prodigiose, non ha perso la capacità di arrabbiarsi, anche se con distacco. Dice: «Avevo chiesto alla Rai di festeggiare il mio compleanno lì dove ho lavorato una vita, in corso Sempione a Milano e in viale Mazzini a Roma. Ci hanno messo due mesi per rispondermi, e dirmi di no».
Guarda ancora la tv?
«Poca roba. Il calcio, sono tifoso del Genoa. Mi piacciono Stracult e Tv Talk , Giusti e Bernardini sanno di che cosa parlano. Poi guardo qualche film fatto per il video, e ogni tanto Tale e quale show , professionalità, trucco e parrucco straordinari. Il problema è che è un’idea comprata, non si inventa proprio più niente».
I creativi non possono essere tutti scomparsi, vero?
«Certo che no. Peccato che non si dia loro spazio. E che a dirigere le reti ci siano sempre giornalisti. Mi spiace per la sua categoria, ma non va bene».
Per questo è scomparso il varietà?
«No, quello è scomparso da tempo, in due momenti topici. Uno, quando arrivarono i conduttori padri-padroni, alla Pippo Baudo per intenderci, che inventarono i contenitori: e questo decretò la morte di autori e registi, nessun copione, l’ospite fa se stesso. Poi, a partire dalle trasmissioni della De Filippi, quando lo spettatore capì che poteva diventare protagonista».
Che dice di Fiorello?
«E’ un grande. Intelligentissimo. Infatti non sta sempre in video, e gli piacciono le nicchie. Fa tutto bene, ma non è un comico puro. Direi che l’ultimo fu Gino Bramieri. Con l’eccezione, forse, di Benigni: che però più che un comico è un divulgatore».
Il suo artista più speciale?
«Walter Chiari, un genio, i primi capelli bianchi me li ha fatti venire lui. Non si presentava alle prove, era inaffidabile. Ma poi si inventava il Sarchiapone. Solo, non cantava benissimo, Fiorello canta meglio».
E Paolo Villaggio?
«Magico talento, pure lui. Il suo personaggio migliore fu Fracchia, un uomo terribile, rassegnato al suo destino: accanto a lui avevo messo Gianni Agus che gli faceva da spalla, e usavamo la famosa poltrona a sacco, dove Fracchia si nascondeva quando il capo gli diceva che era una merdaccia. Non avrebbe potuto avere il successo di Fantozzi, la maschera su cui Villaggio, commercialmente, puntò».
Nei primi Anni Cinquanta non si sapeva neanche che cosa fosse la televisione, figuriamoci farla: come cominciò?
«Per caso, è ovvio. Io sono ligure, nato a Sestri Levante, hanno già messo la targa dove sono nato, si sono portati avanti. Comunque, Università a Genova, e con Franco Della Corte fondiamo il Cut, Centro Universitario Teatrale. Mettevamo in scena i grandi processi dell’antichità. Li esportavamo, anche. A Milano, a vedere le Catilinarie arrivò Sergio Pugliese, che doveva occuparsi dei programmi della nascente Rai, 1953. Mi disse: "Farebbe televisione"? E io: "Sì, il presentatore". E lui: "Molinari, con quel naso...!", e mi diede la regia di quel primo programma della tv italiana».
Il Carosello cui è più affezionato?
«Forse quello con Aldo Fabrizi vestito da donna che reclamizzava il brodo».
Qual era la più grande star?
«Rita Pavone. Pagata più di Mina. Che la soubrette non la voleva fare: voleva solo cantare».
Come diceva Vittorio Gassman, lei ha un grande avvenire dietro le spalle: di che cosa lo riempie?
«Ora di libri. Ho appena terminato di raccontare la storia meravigliosa di Paolo Fregoso, genovese, doge, pirata e cardinale».
Il segreto della sua memoria?
«Genetica, credo. E’ sempre stato così. Anzi, da giovane, leggevo un copione, lo richiudevo e lo ricordavo. Poi viaggio molto, scrivo molto. Tutto aiuta».
Come ricorda Antonello Falqui?
«Lui era più attratto dalla forma estetica, io dalla sostanza».