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 2020  gennaio 18 Sabato calendario

Biografia di Carolyn Christov-Bakargiev raccontata da lei stessa

Il mondo dell’arte — il grande Barnum come lo ha chiamato Marc Fumaroli — è spesso oggetto di vaste speculazioni. Ci sentiamo presi in giro davanti alle quotazioni vertiginose di opere che non terremmo neanche in un sottoscala. A volte dubitiamo delle nostre capacità pensando che in fondo se le cose vanno così è perché c’è gente più abile di noi in grado di attribuire senso a ciò che senso non ha. Altre ancora ci ritiriamo rassegnati davanti alla marcia aggressiva del contemporaneo. Ed è con questi pensierini elementari che mi sono avvicinato a una donna che molti considerano una tra le persone più potenti dell’arte contemporanea.
Sto parlando di Carolyn Christov-Bakargiev, attuale direttrice del Castello di Rivoli e della collezione di Villa Cerruti. Carolyn è un incrocio di esperienze linguistiche diverse: padre bulgaro, madre piemontese, lei è nata nel New Jersey. Girovaga, più spesso per amore che per professione, ha vissuto tra l’Italia, l’Europa e gli Stati Uniti. A guardarla, nei due incontri che abbiamo avuto, viene fuori una donna tenace e brillante. Perfino sconcertante per gli accostamenti culturali che propone. È reduce da una visita al nuovo MoMA di New York.
Approva i cambiamenti radicali, la rilettura, come lei dice, dei valori pittorici, con la forte presenza dell’arte afroamericana. Volti nuovi o artisti che non erano capiti come Joan Jonas — moglie di Richard Serra — considerata molto complicata e oggi in auge nel tempio della contemporaneità. In fondo è lo spoil system applicato all’arte: l’action painting si ridimensiona e salgono le quotazioni di altri artisti fino a ieri sconosciuti.
New York o Los Angeles dettano ancora la linea?
«Meno che in passato e questo anche grazie agli storici dell’arte che hanno riguadagnato un po’ di potere rispetto alle altre figure».
E lei si definisce storica dell’arte?
«Lo sono, insieme a tante altre cose. Si parlava del MoMA. Ecco: il MoMA detta ancora il canone. Perché quando si approda lì la transizione è finita. Ma il canone per sopravvivere deve sapersi rinnovare. È un difficile equilibrio».
Lei ha diretto Documenta a Kassel, una delle grandi manifestazioni artistiche internazionali. Cosa le ha dato e tolto?
«Mi sono sentita una privilegiata. È stato un lavoro straordinariamente eccitante che ha richiesto dedizione e fatica e che ho svolto dal 2008 al 2013. Quando mi hanno chiamato pensai a uno scherzo. Anche se i miei titoli non erano male».
Dove ha studiato?
«Mi sono laureata alla Normale di Pisa, in realtà inseguendo un amore, più che una cattedra. Ho fatto cose strane, voglio dire segnate dall’irregolarità. Seguivo un seminario di Chomsky sulla grammatica generativa, frequentavo Antonio Tabucchi e Paolo Fossati che era consulente di arte per l’Einaudi. Erano gli anni Ottanta».
Studia in Italia, ma le sue origini sono americane.
«Sono nata nel New Jersey da genitori che emigrarono negli Usa. Quindi le mie origini sono europee. Un padre bulgaro e una madre piemontese».
Come si incontrarono?
«Mio padre era figlio di un ufficiale dell’esercito bulgaro. Alla fine degli anni Quaranta giunse a Trieste. Attraversò un pezzo del Paese con l’idea di stabilirsi in Francia. Con mia madre, che dal Piemonte dove era nata si era trasferita a Genova, si conobbero su un autobus a Nervi. Si frequentarono, si piacquero e si sposarono. Nel frattempo lui divenne medico. Negli anni dell’apprendistato aveva condiviso una casa con Italo Calvino. Ma a causa delle sue origini non gli fu riconosciuto il titolo. Come tanti cercò, insieme a mia madre, fortuna negli Stati Uniti. Il mondo americano accentuò le differenze dei loro caratteri. Lui sempre più conservatore e lei sempre più radical. La loro storia si concluse con un divorzio. Quando nacqui, mia madre aveva ripreso a studiare: si laureò con una tesi sul teologo Karl Barth e poi cominciò a occuparsi di archeologia. Credo di aver ereditato la sua duttilità mentale».
Dopo Pisa cosa accade?
«Mi trasferii a Roma, cercando di mettere a frutto le mie competenze nel mondo dell’arte. Avevo cominciato a occuparmi in particolare di Arte povera, su cui in seguito avrei scritto anche un libro. Tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta lavorai per alcune importanti gallerie, collaborando con Villa Medici e con l’Accademia Americana. A quel tempo scoprii alcune personalità con cui realizzare le prime mostre. Con William Kentridge, che in Italia nessuno sapeva chi fosse; e poi con Pierre Huyghe e Doris Salcedo. Lavorai anche per il Contemporary Art Center a New York; poi dal 2002 al 2008 divenni curatrice del Castello di Rivoli, feci la Biennale di Sidney e Documenta, mi occupai nel 2015 della Biennale di Istanbul. Infine sono tornata alla direzione del Castello di Rivoli, che nel frattempo ha integrato la fondazione Cerruti, con la sua straordinaria collezione d’arte antica».
Gli elenchi delle cose realizzate hanno il pregio di nascondere la fatica, lo stress, perfino le delusioni che un percorso così ambizioso probabilmente nasconde. Si è mai trovata nella situazione di dirsi: che ci faccio io qui?
«Beh, è accaduto dopo l’esperienza di Documenta. Mi sentivo svuotata ed è stato duro riprendere a lavorare. Pensavo di non volermi più occupare di mostre. Ho accettato un invito per insegnare un semestre al Goethe Universität di Francoforte. Ho cominciato a occuparmi di architettura delle api e poi — con un allievo di Karl von Frisch, etologo e premio Nobel, insieme a Lorenz — del loro linguaggio».
Una suggestione che l’ha spinta dove?
«A esaminare con più attenzione la relazione tra l’umano e il non umano. Non siamo i soli esseri dotati di un linguaggio e di un codice. Perciò l’idea che la sorte di un pianeta dipenda da una sola specie è pura megalomania. E può condurci alla catastrofe».
Ma questo che c’entra con l’arte?
«C’entra perché l’arte è anche la sentinella che avverte quando qualcosa di diverso, di nuovo, magari di bello, più spesso di minaccioso, sta arrivando. Il concetto di antropocene entra in questa rivisitazione».
"Antropocene" è l’idea in base alla quale l’uomo non è più l’ospite della terra, ma il padrone che se ne serve con effetti che possono rivelarsi catastrofici. Il segnale oggi più allarmante proviene dal riscaldamento globale.
«Il termine antropocene nasce sul finire degli anni Settanta. Ma è solo all’inizio di questo secolo, grazie al premio Nobel Paul Crutzen, che si fa strada l’idea che gli stessi elementi che in passato hanno contribuito a un benessere diffuso stanno conducendo la biosfera al collasso. I cambiamenti del pianeta non sono più l’effetto dell’azione geologica, bensì di quella umana. L’era antropocenica mette insomma l’uomo a un bivio. Dovrà scegliere se salvaguardare il pianeta, e dunque salvarsi, oppure continuare a illudersi che tutto potrà continuare come prima. Compito dell’arte è anche quello di porsi il problema della distruzione».
In che senso?
«Nel senso della sofferenza che la distruzione provoca intorno a sé. La distruzione prende varie forme: la distruzione del passato, la distruzione della natura, la distruzione dell’arte. A questo riguardo con Documenta ho cercato di testimoniare la sofferenza prodotta dall’esplosione dei Buddha di Bamiyan ad opera dei talebani».
Il fanatismo ideologico ha quasi sempre negato l’immagine artistica.
«Gli esseri umani hanno la capacità di trasformare l’orrore in piacere. Ma anche il piacere in orrore. L’arte stessa può nascere dal trauma. Testimoniare sulla scomparsa dei Buddha era per me un gesto all’altezza dell’arte. Un gesto che "ripara" qualcosa che è stato rotto».
Come si riparerebbe un oggetto?
«Mi rifaccio alla lezione di Melanie Klein, quando in alcuni saggi degli anni Quaranta descrisse le reazioni del bambino per uscire dalla depressione cui lo hanno spinto le fantasie distruttive. Il bambino combatte il senso di colpa cercando di "riparare" ciò che ha distrutto. E la riparazione è la ricreazione di un oggetto d’amore infantile danneggiato».
Accennava prima alla sofferenza personale dopo l’esperienza di Documenta.
«È stato un periodo duro, frutto dello stress accumulato negli anni di Kassel. Mi sono curata con l’insegnamento e la ricerca. A parte Francoforte ho accettato di svolgere dei seminari a Leeds con Griselda Pollock che, fin dagli anni Ottanta, ha applicato le teorie femministe all’arte, sostenendo che la storia dell’arte sia stata inquinata dalla misoginia. Eppure molte donne sono state fondamentali nell’arte e nell’elaborazione del pensiero».
A chi pensa?
«Non vorrei fare un catalogo, ma limitandomi all’esperienza personale ci sono nomi straordinari: la filosofa della scienza Isabelle Stengers; Karen Barad, che ha lavorato sul pensiero quantistico in rapporto al mondo queer; Donna Haraway, zoologa e filosofa, che, sviluppando le teorie dell’antropocene, si è posta il problema di come sopravvivere in un pianeta ormai infetto. Donna, che vive e insegna a San Diego, ha anche tradotto la femminista italiana Carla Lonzi. Ida Gianelli cui devo molte intuizioni. Quanto a me, mi sono occupata del pensiero di Annie Besant, protagonista del socialismo fabiano, femminista ma soprattutto teosofa. Un pensiero che mi ha affascinato e che mi ha ricondotto al lavoro straordinario di Harald Szeemann».
Lei è molto acrobatica. Ma che cosa c’entra la teosofia?
«Annie Besant scrisse sull’antica sapienza facendo proprie le convinzioni di Madame Blavatsky. Alla base della teosofia c’è la rettitudine del pensiero e del proprio vivere. Senza che si crei contrasto con le singole religioni. Nessuno, diventando teosofo, dice Besant, è obbligato a rinunciare a essere cristiano, buddista, induista; egli non farà che acquisire una più profonda conoscenza della propria fede».
Che rapporto ha con l’arte?
«In chiave storica è provata l’influenza di certe teorie teosofiche sui preraffaelliti, e il loro simbolismo, e soprattutto sull’arte astratta: Kandinskij, Malevic, Mondrian. Boccioni riconobbe una certa influenza di pensieri da parte di Annie Besant. La stessa esperienza artistica di Georgia O’ Keeffe si può far risalire alla Besant e a Gurdjieff. In un senso più personale proprio la teosofia aiuta a trovare risposte a quella distruzione dell’arte cui facevo riferimento».
In tutto questo qual è il ruolo di Harald Szeemann?
«Intanto è un uomo che ho conosciuto bene e che mi ha aiutato in un momento difficile della mia carriera. Molto prima di me diresse, nel 1972, Documenta e poi anche la Biennale di Venezia. Lo conobbi personalmente a Roma nei primi anni Novanta. Alla fine di quel decennio, visitò una mostra che avevo curato a Villa Medici, mi colpì l’attenzione e l’affetto che manifestava verso i giovani. Mi aiutò a rientrare in Europa quando ero stanca di New York e quando è scomparso — esattamente 15 anni fa — ho cominciato a studiare le sue carte depositate al Getty. Ho trovato illuminante, per il discorso che si faceva, quella parte del suo archivio intorno a Monte Verità, su cui realizzò perfino una mostra a Kassel nel 1978».
Monte Verità fu l’esperienza utopica che una comunità di artisti fece agli inizi del Novecento.
«Fu una comunità di visionari, anarchici e artistoidi che si installò a fine Ottocento sopra Ascona, nel Canton Ticino. Alcuni dipingevano, altri scolpivano, altri danzavano. Fu una enclave egualitaria sorretta da principi che si ispirarono a George Steiner e alla teosofia. Harald, come un vecchio hippie, era affascinato da quel mondo che si era esaurito con la fine della Seconda guerra mondiale. Szeemann fu un uomo generoso e singolare. Consultando i suoi archivi, trovai in una cartellina due mie lettere alle quali non aveva risposto. In una gli manifestavo il mio disagio e il desiderio di tornare in Europa. Mi aiutò senza dirmelo. Tra le sue numerose virtù ci fu anche la discrezione».