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 2020  gennaio 18 Sabato calendario

Chiedere alla medicina probabilità, non certezze

Caro direttore, «I don’t know», non lo so. Queste tre parole hanno, nel rapporto tra il medico e le persone che a lui si affidano, un potere enorme. Sono, in molti casi, le più difficili da pronunciare, e allo stesso tempo, le più vere e oneste. Difficili proprio perché vere. Rimandano a un aspetto fondamentale della conoscenza in medicina, che è il più complesso da comprendere ed accettare, da parte di chi è malato. Ma è importante insistere, su questo punto. La medicina è, in larga misura, una scienza probabilistica. I medici fanno diagnosi, somministrano cure, eseguono interventi chirurgici, stilano prognosi, sulla base di stime di probabilità. I sistemi biologici, e il corpo umano tra questi, sono sistemi enormemente complessi, e le alterazioni che portano all’insorgere della maggior parte della malattie, derivano da un insieme di fattori la cui comprensione e misurazione è almeno incompleta, se non impossibile con gli strumenti di cui disponiamo. Matt Morgan, un intensivista britannico, lo ha ricordato in un suo commento di poche settimane fa, sul British Medical Journal, una delle migliori riviste mediche. Lo ha fatto con un semplice esempio che nulla ha a che vedere con la medicina. Ognuno di noi consulta le previsioni del tempo, e sa che quella che viene espressa è la probabilità di un fenomeno atmosferico; ad esempio, che la probabilità di pioggia, in una determinata ora di un determinato giorno, è del 90%. Se in quell’ora di quel giorno dovesse splendere il sole, non potremmo dire che c’è stato un errore, ma «solamente» che la verità stava nel 10% rimanente. Alla domanda diretta, a quell’ora di quel giorno pioverà?, l’unica risposta corretta avrebbe dovuto essere «è molto probabile che», ma «non lo so» – e non lo posso sapere – con «certezza». E tuttavia, l’informazione sulla probabilità di pioggia (al 90%), ci è utile per decidere come vestirsi, se uscire con un ombrello, con che mezzo muoversi.
In medicina, molte informazioni, in particolare quelle prognostiche, e ovviamente in misura diversa, sono dello stesso tipo, soggette cioè a una previsione di natura probabilistica. Sono informazioni importanti, perché fornire delle probabilità significa sapere molto più di prima, e avere una base razionale per prendere decisioni. Nel suo editoriale di commento, Kamran Abbasi, executive editor di Bmj, cita alcuni esempi, riferiti a lavori pubblicati nello stesso numero della rivista: il rapporto tra terapia ormonale sostitutiva nelle donne in menopausa e rischio di tumore mammario, gli effetti delle modifiche di peso corporeo nell’adulto sulla mortalità, se prescrivere o meno statine a pazienti con basso rischio cardiovascolare, o come comportarsi con chi decide di utilizzare test genetici commerciali. Per concludere, ironicamente, che «non lo so» è anche la risposta più probabile a chi chiede di spiegare il sistema sanitario statunitense. 
Ognuno di questi esempi coinvolge milioni di persone: nel solo Regno Unito, circa un milione di donne assume una terapia ormonale sostitutiva. Le statine sono oggi la classe di farmaci più usata in Gran Bretagna e una delle più utilizzate nel mondo, e il solo cambiamento nelle indicazioni di utilizzo ha quasi decuplicato, dal 1987 al 2016, la percentuale di soggetti potenzialmente trattabili con statine (dall’8 al 61%); ma ciò che più importa, è che trattando pazienti a basso rischio aumenta il numero di pazienti che è necessario trattare per evitare un evento cardiovascolare grave, da 40 nel 1987 a 400 nel 2016. E ciò che ancora più importa, nella relazione medico-paziente, è che il medico non sa se quel paziente con cui sta parlando è quell’uno tra 400 che si salverà grazie al trattamento, o uno degli altri 399 che assumeranno statine senza trarne alcun vantaggio, o addirittura subendone gli effetti collaterali. Non lo sa, non per sua colpa o ignoranza, ma perché nessuno lo può sapere, non allo stato attuale delle conoscenze. Può solo, onestamente, dare queste informazioni, e condividere la decisione se iniziare o meno la terapia con il paziente stesso. 
Molti degli sforzi che la ricerca medica sta compiendo in questi ultimi anni rimandano proprio alla necessità di «personalizzare» le informazioni diagnostiche, prognostiche e terapeutiche; attraverso la produzione, la raccolta e l’elaborazione di un’enorme quantità di informazioni, con l’obiettivo di identificare le caratteristiche biologiche di ciascuno di noi, individualmente. Del singolo tumore, ad esempio, attraverso lo studio delle diverse mutazioni, perché sia possibile prevedere, in quella persona e solo in quella, come risponderà a una determinata terapia, e solo a quella. Quando sarà possibile, e in che misura, ottenere questo risultato, merita la stessa risposta, «non lo sappiamo». 
Oggi, è fondamentale comprendere il senso vero, di profonda onestà intellettuale, che si nasconde nell’ammissione che la medicina può dare molto, a condizione di chiederle probabilità, e non certezze. È difficile dirlo, è ancora più difficile sentirselo dire, perché una persona malata, e chi gli è vicino, si aspettano delle risposte certe, solide, si aspettano che la medicina moderna possa tutto. Forse occorre imparare il modo con cui dirlo, o forse non sempre è la risposta migliore. Ma la più onesta, con se stessi e con chi al medico affida la sua salute e la sua vita, questo probabilmente sì.