Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 18 Sabato calendario

Massimo Giletti e la morte del papà. Intervista

«Era settembre, passeggiavamo nel parco della villa, quando papà mi ha preso sottobraccio, davanti al laghetto che da bambino mi ero costruito da solo, scavando con la pala più alta di me, per tenerci i girini e i pesci acchiappati a mani nude nelle risaie, poco più di una pozza. Poi un giorno, tornato da scuola, trovai un vero lago: aveva fatto venire lo scavatore, c’erano le banchine, i fiori. Il più bel regalo della mia vita. “Ti ricordi, Massimo, quanto eri contento? Ora però il regalo devi farmelo tu: giurami che, quando non ci sarò più, tornerai qui e manderai avanti la fabbrica con i tuoi fratelli”».
L’ha promesso. 
«E lo farò, non sarà semplice però è nei momenti difficili che capisci chi sei». 
Ed è per questo che, da quando Emilio Giletti, imprenditore tessile piemontese con un passato ruggente da pilota di Ferrari e Maserati e una gloriosa vittoria alla Mille Miglia nel 1953, è scomparso a novant’anni, il 4 di gennaio, suo figlio Massimo, il terzogenito, quello che già a otto anni d’estate veniva mandato «ad avvitare bulloni di mattina presto per non farmi poltrire», ora che è presidente della Giletti Spa di Ponzone Biellese, alle dirette di Non è l’Arena su La7 alterna le maratone su e giù per l’Italia ad incontrare i clienti della ditta fondata nel 1884 dal bisnonno Anselmo «lungo il torrente, dove prima c’erano soltanto prati e pecore e lui invece costruì chiesa, asilo e ambulatorio per i suoi mille operai e nel 1903, insieme a Zegna, portarono il treno: prima le stoffe viaggiavano a cavallo». 
I clienti resteranno un tantino interdetti. 
«Mica tanto, non mi trattano come il Giletti della tv, nessuno mi ha mai chiesto, che so, di Belén, parliamo di questioni tecniche. L’altro giorno li ho stupiti quando ho preso in mano una rocca di filo e l’ho tirato in un certo modo, per capire se era fatto bene». 
Ed era ben fatto? 
«Sì, me ne intendo. Sono cresciuto tra rocche e carde, ancora oggi se chiudo gli occhi respiro l’odore del cotone e della lana, quello ti resta dentro per sempre». 
Famiglia facoltosa, alta borghesia piemontese, per casa un castello con torre, eppure fu svezzato presto da baby-operaio. 
«Papà era severissimo, sia con me che con i miei due fratelli maggiori». 
I gemelli Emanuele e Maurizio, quelli che da piccolo lo ficcavano nel pozzo. 
«Se è per questo mi hanno anche abbandonato sull’isolotto nel torrente, con la piena, ma era colpa mia, gli davo il tormento. Quegli scherzi perfidi rivelano un profondo volersi bene. Papà voleva temprarci, insegnarci che nella vita bisogna fare sacrifici. Io venni affidato al capo officina, Celso Barberis, che mi munì di cacciavite: “Signorino, prego, giri così”». 
E come proseguì l’addestramento? 
«Con le lezioni davanti alle vasche dei colori. Dopo la laurea ogni estate continuai a lavorare in fabbrica, anche quando già facevo Mixer con Minoli. Mi infilavo la tuta e pulivo le carde, macchine che filano il cotone». 
Se le piaceva tanto, perché cambiò mestiere? 
«Perché papà era un uomo solo al comando, non ha mai mollato, viveva per l’azienda e non delegava niente, stargli accanto era difficile, dopo ogni esame ne seguiva sempre un altro. Una notte alle tre si ruppe un macchinario, la fabbrica si sarebbe fermata. Chiamai due meccanici e insieme cambiammo il motore, in bilico su una scala a venti metri d’altezza. Finimmo alle sei del mattino, li mandai a casa. Alle sette meno cinque papà entrò in officina e notò subito gli attrezzi sporchi di grasso. “Perché non avete ripulito?”. Gli spiegai che i ragazzi erano stremati. “Infatti dovevi farlo tu”. Capii che era il momento di mollare». 
Lui come la prese? 
«“Le dimissioni richiedono una lettera scritta”, sibilò. Ma so che pianse, quando me ne andai». 
Rapporto complicato. 
«Molto. Da bambino ero legatissimo alla mamma e lui era... beh, piuttosto allegro sentimentalmente. La vedevo soffrire. Fu per me un dolore intenso, difficile da perdonare». 
E l’ha perdonato? 
«Da grande certi comportamenti li rivedi con un altro sguardo. Negli ultimi anni è stato più un fratello che un padre, se ci si vuole bene ci si ritrova sempre. I nostri abbracci sono diventati più intensi, quasi a compensare quelli che non avevo avuto da bambino». 
No? 
«Non ne ricordo. Papà era sempre via, io passavo più tempo con i domestici che con lui. Un pomeriggio, avrò avuto quattro anni, tornò a casa, scese dalla macchina ed io... io corsi ad abbracciare l’autista, gridando felice: papà, papà!. C’erano ospiti, che imbarazzo. Fu uno scandalo di cui si parlò a lungo, sa, mamma era bella...». 
Magari, di nascosto, suo padre ci avrà riso su... 
«Può darsi. Per quanto inflessibile, era simpatico, autoironico. Ricordo quando ci prendeva la ridarella mentre la nonna Bianca recitava il rosario. O quando la domenica mi portava a pranzo a San Bononio da un suo amico operaio e mi toccava bere il latte di mucca appena munto che mi faceva senso. Papà sapeva stare al mondo, anche se era uno scavezzacollo con le donne...». 
Beh, non è che lei invece... 
Ride. «Lo so, qualche bel disastro amoroso l’ho combinato anch’io, purtroppo ho preso da lui, sarà il Dna». 
A 57 anni fa sempre in tempo. 
«Il guaio è che per me se finisce la passione finisce pure l’amore e allora mi annoio. Però finché dura amo davvero». 
Solo che non dura. 
«Eh no. La mia libertà viene prima. Un figlio? Non aggiungiamo altri disastri». 
Suo padre l’avrebbe voluta accasato e sistemato? 
«Scherza? Si raccomandava sempre: “Non fare cavolate, guai a te se ti sposi».