Quando lascia Rimini, sarà per andare alla conquista di una parte di se stesso che gli appartiene già, sebbene la profondità di Roma sia inconoscibile, perennemente esotica, falsamente familiare. Fellini è uno degli ultimi artisti rinascimentali che, come Michelangelo dalla minuscola Caprese, andavano a lavorare per i papi. Inoltre per i romagnoli dello Stato pontificio – e anche dopo – era naturale avere un piede nella Curia: anzi, era proprio questo rapporto di sudditanza ad alimentare conflitti, anarchie. Paradossalmente la crescita di Fellini avviene in un luogo dove ruoli paterni e materni sembrano rovesciati.
Il suo mondo delle madri è quello dell’ava paterna, non materna: è la campagna ancestrale il cui nume è la nonna Franzcheina, totemica come Toro seduto, provvidente come l’ava di Giove. I Romani avevano addomesticato le selve e il selvaggio: l’avevano relegato nelle siepi, al limite dei campi, o sulle rive del mare. Lì regnava Diana, dea di fiere e confini, il cui carro lunare aleggia ancora sui bassorilievi levigati del Tempio malatestiano.
Fellini non rimuove nessuna delle figure arcaiche, quando le fa riemergere ora dalla campagna, ora dal mare. Come nell’ Odissea , nei campi di Amarcord appaiono – visione del vecchio perduto nella nebbia – i bianchi buoi dalle corna lunate, ai quali Tonino Guerra ha intonato l’elegia.
La campagna d’inverno riprende un possesso ferino della città, quando la Rimini estiva si svuota. Soprattutto ne La mia Rimini (1967) la campagna magica di Gambettola, percorsa dagli zingari – rievocata nel Miracolo e nelle Notti di Cabiria con Zampanò – è il reame della nonna: arzdora onnipotente da cui tutti dipendono, signora di uomini, animali, e meteore, che prevede infallibile l’arrivo del garbino. In 8 ½ sovrintende l’operazione del nipotino Diòniso: la pigiatura dell’uva. Tutti i bambini sono nel mastello del vino, come il piccolo Bacco. La nonna monologa tra sé nella lingua della terra, il dialetto. È la lamentela della potenza degradata: quella di Era per l’infedeltà di Zeus. In queste case dagli alti muri bianchi, protegge il sonno, alimento dei sogni: « Durmì bèn, creaturéini
». Tornerà giovane, come la fata di Pinocchio, ne La voce della luna .
Questa campagna, che il mondo contemporaneo allontana, come il passato, ha la sua durata nel mondo ctonio, al quale Fellini è devoto. In comune col culto di Pascoli per la morte, con il nostro fondo celtico (la notte di Ognissanti – come in Samhain – i mondi si rovesciano, e comunicano), Fellini vi scopre «un mondo dove tutto è semplice, decoroso, facile e rassicurante. Il mondo dei morti»: il mondo magico che in lui è legato «a tutta l’ispirazione religiosa ».
A questa durata ctonia (e panica), che sostiene la ferinità addomesticata della campagna corrisponde quella del mare. «Ma è soprattutto il mare che d’inverno colpisce con fragore. Diventa straordinario, grigio, violento, una specie di brodo di alghe in perpetua ebollizione. Questo mare, lo sai, lo amo con passione! È commovente misterioso, è traditore e accogliente, non te ne puoi fidare un secondo, e tuttavia troppo spesso gli ci si affida ciecamente. È un mare-donna. Più forte degli uomini che lo solcano. Più forte della loro diffidenza. In tutti i miei film, il mare Adriatico è là, presente… ».
Sulla riva del mare avvengono le due rivelazioni dell’eros, l’una nel sogno, l’altra reale. Nella prima si manifesta la dea nella sua bellezza: Diana e Venere. Nell’altra la maga- strega. Entrambe nella vibrazione del tremendum . Nella propria mito- biografia, che unisce strettamente Roma ad Amarcord , Fellini parte letteralmente dalle proprie pietre miliari. Roma si apre con il cippo della via Flaminia: le donne spingono la bicicletta nel viola dell’alba invernale; subito dopo, un allegro drappello di scolari varca il fiumiciattolo fatidico. Poi, ecco la piazza sotto la neve, con la statua di Giulio Cesare e i commenti irriverenti di Giudizio; tutti gli altri riferimenti alla città cui Rimini è legata dal cordone ombelicale: capitale dove fuggire: meta dei Vitelloni.
Fellini era figlio della struttura concettuale che aveva regolato un paesaggio cosmico: ne aveva fisse in sé le espressioni lapidarie. Da quell’ordine concettuale, linguistico, formale, aveva ricevuto l’imprinting nei sensi più estesi del termine: irreversibili. Anche per questo il rapporto tra ordine e caos, tra regola e trasgressione, era per lui così nutriente. L’idea sempre ribadita che l’artista deve trasgredire, e per poterlo fare non deve avere la libertà, ma figure autoritarie, cui ribellarsi, trovava un doppio conforto, paradossale. Una volta passato il Rubicone, non si torna indietro. Anche per questo, tornare a Rimini per lui era difficile.
Lo presero per provinciale. Orson Welles insistette: «Fellini è essenzialmente un ragazzo di provincia che non è mai arrivato a Roma. La sta ancora sognando. E dovremmo essergli molto grati per quei sogni... La forza della Dolce vita proviene dalla sua innocenza provinciale... È dotato come nessun altro che faccia film oggi. Il suo limite — che è anche la fonte del suo fascino — è che è fondamentalmente molto provinciale. I suoi film sono il sogno della grande città fatti da un ragazzo di provincia. La sua sofisticatezza funziona perché è la creazione di uno che non ce l’ha. Ma mostra pericolosi segni di essere un artista superlativo con poco da dire».
Fellini sul momento ci rimase male. «Ci riflettei un paio d’ore, poi conclusi: "Ha ragione e non è un’insolenza: l’adolescenza è indispensabile per un creativo"». Poi Fellini nobilitò l’idea stessa del provinciale, stabilendo una gradazione di realtà e di categorie, dalle quali si poteva considerare l’arte, la meta così lontana, quasi irraggiungibile, al di sopra della natura delle cose. Ma la critica di Welles aveva avuto altri veleni, e da loro Fellini si difese con la massima consapevolezza: «Quando Rossellini disse che La dolce vita era il film di un provinciale, probabilmente non si rendeva bene conto di ciò che stava affermando. Dal mio punto di vista, infatti, chiamare un artista con l’appellativo di "provinciale" è la migliore definizione che se ne può dare. L’artista si deve porre di fronte alla realtà con quell’atteggiamento tra l’attrazione e il distacco tipici di un provinciale. Che cos’è un artista dopo tutto? Non è che un provinciale preso in mezzo tra la realtà fisica e quella metafisica. Di fronte alla realtà metafisica siamo tutti dei provinciali. Allora chi è un cittadino del mondo trascendente? I santi. Ma è la terra di nessuno che io chiamo provinciale, la frontiera tra il mondo dei sensi e il mondo sovrasensibile, quello è davvero il regno dell’artista».
Erano le parole della mente meno provinciale del mondo: quella di Michelangelo con il faticoso pennello sulla volta della Sistina, quella di Kafka: la mente dello "straniero".