La Stampa, 17 gennaio 2020
Il denaro cambia i kibbutz
I kibbutz, villaggi basati sul principio dell’uguaglianza dei loro membri, sono un esperimento sociale israeliano che ha pochi uguali al mondo. Il primo, Dgania, fu fondato nel 1910 sulle rive del lago di Tiberiade. Da allora sono passati più di cento anni e sono sorti molti kibbutz in tutto Israele. Che cosa è successo, dopo circa quattro generazioni, a questo particolare tipo di insediamento in cui tutto era in comune e i residenti percepivano la medesima retribuzione? Come vivono nel 2020 i pronipoti dei suoi fondatori?
Innanzi tutto occorre sapere che i kibbutz sono villaggi agricoli. Israele, nei primi anni della sua esistenza, doveva preoccuparsi di fornire il cibo ai suoi abitanti e furono queste comunità, con le loro coltivazioni, a provvedere al sostentamento della popolazione. Lavorare la terra era inoltre un’attività che aveva una valenza ideologica, quasi religiosa. In quegli anni i kibbutz erano il caposaldo di Israele e la fondazione di ogni nuovo insediamento collettivistico, soprattutto nelle zone di confine con i paesi arabi, era un evento significativo, di grande valore.
Io sono cresciuto in uno di quei villaggi, Netzer Sereni, e da bambino, per me, era come stare in un paradiso. Lì, in quella realtà, il denaro non esisteva. Si usciva di casa la mattina, di solito per faticare nei campi, ma nessuno percepiva uno stipendio. Si ricevevano nuovi indumenti due o tre volte all’anno, si avevano gli stessi vestiti e le stesse scarpe. Tutti vivevano secondo la regola: «Ognuno fa ciò che può e riceve ciò di cui ha bisogno». I pasti venivano consumati in una grande mensa al centro del kibbutz e a me piaceva molto quel raduno di centinaia di persone. L’intera comunità aveva modo di incontrarsi. Una volta alla settimana i tavoli venivano spostati di lato per permettere la proiezione di un film e in quella sala enorme si teneva anche la riunione settimanale dei membri in cui, mediante votazione, si prendevano decisioni su questioni all’ordine del giorno. Avevamo a disposizione una certa somma per poter assistere a spettacoli teatrali o a concerti in città. E molti di quegli spettacoli arrivavano anche nei kibbutz.
Le case per gli adulti, costruite dalla comunità, erano piccole, modeste, comprendevano un soggiorno e una camera da letto, ed erano tutte arredate nello stesso stile spartano. Non avevano una cucina vera e propria in quanto, per l’appunto, i pasti venivano serviti alla mensa. Noi bambini vivevamo invece in edifici a noi riservati, in base al principio che i figli appartenevano a tutti e il nucleo familiare passava in secondo piano. A partire dall’età scolastica lavoravamo ogni giorno nei campi e nei frutteti per un paio d’ore, e durante le vacanze anche più a lungo.
Questa mia descrizione dà un’immagine idilliaca e utopistica di una società di stampo comunista, improntata sul principio di una totale uguaglianza. Va però precisato che gli esseri umani, probabilmente, sono per loro natura individualisti e quindi, per esempio, se l’assemblea del kibbutz non avesse approvato la richiesta di un giovane di frequentare l’università, costui avrebbe provato un sentimento di amarezza e si sarebbe chiesto se quello era il prezzo da pagare per vivere in una società in cui l’individuo dipendeva dagli altri. Chi non si adattava a tale vita poteva però lasciare il kibbutz, che era una società fondamentalmente libera, di persone indipendenti. Ed è questa la grande differenza tra questi insediamenti e altri regimi di stampo comunista.
Tra i cambiamenti avvenuti nei kibbutz negli ultimi decenni il più considerevole da un punto di vista ideologico è quello della privatizzazione. Questo significa che ogni membro è responsabile della propria fonte di reddito. Alcune persone lavorano all’interno della comunità – nei campi di cotone, nelle piantagioni di frutta, o nelle fabbriche – e ricevono una retribuzione in base alla mansione che svolgono.
Chi invece ha un’occupazione al di fuori della comunità versa lo stipendio al kibbutz e riceve una somma di denaro proporzionata al proprio guadagno. Un altro cambiamento, non meno drammatico, è che ora ai membri del kibbutz è consentito decidere cosa fare con i propri soldi. Non è necessaria l’autorizzazione dell’assemblea per acquistare, per esempio, una bicicletta ai figli. Una cosa del genere – possedere una bicicletta, o magari una stufetta elettrica – era impensabile nelle comunità di una volta.
I kibbutz dei primi tempi erano luoghi di assoluta e dogmatica uguaglianza che esercitavano un fascino particolare. Molti giovani da tutto il mondo, anche dall’Italia, arrivavano per lavorarci come volontari e vivevano per alcuni mesi in quella che sembrava essere una società ideale. Anche il nuovo primo ministro britannico Boris Johnson è stato volontario nel kibbutz Kfar Hanassì, in Galilea, nel 1984. L’idealismo è stato ora sostituito da uno stile di vita in cui non esiste più un’uguaglianza assoluta. Si è trattato di un processo lungo, complesso e anche doloroso per alcuni membri del kibbutz e non è facile comprenderne tutti i dettagli, anche perché, nelle comunità moderne, esistono grandi differenze nella suddivisione del reddito e della proprietà.
In futuro i kibbutz si allontaneranno ancora di più dal sogno dei padri fondatori di creare un «uomo nuovo» che non attribuisce importanza al denaro e aspira alla completa uguaglianza tra le persone?