la Repubblica, 17 gennaio 2020
Un libro sullo stile e la moda punk
Quel tipo che ti guarda torvo mentre urla “ Dio salvi la regina/ e il regime fascista/ ti hanno fatto diventare un idiota/ una potenziale bomba H” avvolto in una maglietta dalle maniche molto più lunghe delle braccia così da sembrare una camicia di forza sembra un pazzo. Ma non lo è: è Johnny Rotten, il cantante dei Sex Pistols. Sulla maglietta c’è scritto Destroy. È una delle visioni più iconiche della storia della musica, l’immagine di una rivoluzione, quella del punk. Che cosa c’entra il punk con la moda? Niente. E tutto. Il punk vuole distruggere molte cose: la musica, la moda, i luoghi comuni, la politica tradizionale, la noia. La sua è la bellezza orribile di Medusa che mentre ti disgusta ti seduce. Il punk vuole porre un confine chiaro e netto tra sé e il mondo borghese che disprezza e lo fa a partire dall’abbigliamento.
Moltissimo si è scritto su questo movimento che di fatto è stata la controcultura dall’impatto più prorompente, ma un libro completamente dedicato al punk a partire dallo stile non c’era. Volumi precedenti come Punk. No One Is Innocent: Art, Style, Revolt o Revolt Into Style di George Melly o, ancora The Look: Adventures In Rock & Pop Fashion di Paul Gorman fanno infatti riferimento non a una ma a diversi tipi di controculture giovanili e hanno un background sociologico mentre Punkouture (sottotitolo: Cucire una rivolta 1976-1986 ) di Matteo Torcinovich si focalizza esclusivamente sul punk e ha una caratterizzazione di tipo storico/ documentaristico. Si suddivide in sei sezioni: Vestire, Capelli, Make Up, Calzature, Accessori, Shopping. Ognuna di loro contiene un’impressionante quantità di immagini, la maggior parte delle quali tratte da riviste che vanno da TV Sorrisi e Canzoni a fanzine come Damage e Sniffin’ Glue. Le fanzine sono, come dice il nome, contrazione di “fan-magazines”, pubblicazioni scritte direttamente dagli appassionati. Esistevano già da prima ma è con il punk che raggiungono il massimo livello di notorietà e diffusione anche perché sposano perfettamente uno dei suoi temi fondanti: la cultura del cosiddetto do it yourself per cui puoi essere tu il protagonista senza bisogno di niente e di nessuno. Non serve saper suonare: se ti va prendi e fai una band, basta imparare quattro accordi. Fatti i tuoi vestiti, crea una rivista! Band come Sex Pistols e Clash nascono così e, sembra un caso ma non lo è, entrambe hanno a che fare con un negozio di vestiti: i Pistols con il celebre Seditionaries (che prima si chiamava Let it Rock) gestito da quello che sarà il loro mentore Malcolm McLaren e da Vivienne Westwood (che diventerà una famosa stilista) e i Clash, che a loro volta si ritrovano nel negozio di un rasta convertito al punk, che poi convertirà molti punk al reggae: Don Letts con il suo Acme Attractions. Entrambi i negozi si trovano in King’s Road.
Nel libro di Torcinovich è interessante (ri)scoprire cose bizzarre del tipo che nel 1978 la Ricordi regalava una canottiera in plastica nera ricavata da un sacchetto della spazzatura (“l’unica, vera canottiera punk”) a chi acquistava un LP di Sex Pistols, Stranglers, Ultravox! (questi ultimi non così punk ma non sottilizziamo) e che i giornali non avevano la sola funzione di informare ma anche di vendere per corrispondenza, proprio come fa Amazon oggi. Riviste inglesi come Smash Hits, Sounds, New Musical Express, attraverso l’azienda Gringo Casual, vendevano mutande leopardate, abbigliamento bondage, spille ma anche un look completo da Clash, la giacca da pirata di Adam Ant o la tuta dei Devo, come mostrato nelle illustrazioni reallizzate da Paola Querin. Anche i capelli sono fondamentali: il punk se li inventa cortissimi in contrapposizione ai capelli lunghi degli hippie, spettinati, rasati, a spunzoni, tenuti in piedi o con una cresta in stile mohicano e, soprattutto, tinti con i colori più assurdi, blu, arancione, rosso, verde, leopardati. Infine, come dimostrano i più “stilosi” di tutti, i Clash, nel punk non esiste una divisa unica. Cappelli, spolverini, bretelle, foulard, vestiti militari e anche cravatta (vedi il chitarrista Mick Jones) molti dei quali disegnati e cuciti ad hoc, come pochi sanno, dalla bravissima Alex Michon, che ha poi proseguito la sua carriera come artista esponendo in varie gallerie.
Ma non si deve pensare all’attenzione al look dei Clash e in generale di tutta la scena punk come a una forma di contraddizione rispetto all’impegno politico. Lo spiega bene in una sola frase Don Letts: «In Inghilterra musica e moda sono inseparabili da sempre. Lo stile non era importante solo per i Clash: lo era per tutti. Basti guardare i gruppi degli anni 60. Era una combinazione fatale. Oggi non è così importante ma allora era tutto quello che avevamo».