E ora, Meneghin, arrivato a 70 anni, ne resteranno abbastanza per rivedere il basket che ha vissuto?
«Lo spero ardentemente, sono anche un tipo ottimista, ma capisco che quegli anni sono stati davvero fantastici, forse irripetibili. Però vedo i club tornare a investire, dico che abbiamo pure noi giocatori buoni, in Nba e non solo, e spero, anche se poi la Nazionale sta avendo meno risultati di quelli che meriterebbe. So che i più delusi sono i ragazzi, una semina c’era stata, il raccolto no».
Dove abbiamo sbagliato?
«Tutto è cambiato con la sentenza Bosman, che ha smantellato un sistema. I club lavoravano sui settori giovanili, i ragazzi forti uscivano, il cartellino ripagava le società, quando i Riva e i Myers le lasciavano il prezzo incassato riavviava il ciclo virtuoso.
Tutto finito, e non abbiamo trovato un sistema sostitutivo. Dovevamo reagire con più energia e volontà.
Lavorare di più, investire sugli istruttori, esigere più impegno dai ragazzi. L’ascensore s’è fermato, gli allenatori non rischiano perché perdono il lavoro. Io ricordo un Tanjevic che faceva esperimenti anche pazzi, e intanto però allevava campioni. Uno così oggi non c’è».
Coltiva i ricordi delle vittorie, o sono già tutte pagine voltate?
«Ogni tanto capita di parlare del passato, coi vecchi compagni o i tifosi d’una volta. Non sono un nostalgico, sono consapevole di ciò che fu fatto in quegli anni fantastici, ma mi basta averli vissuti. Che eravamo più bravi noi non lo dico mai».
Più cari i trionfi azzurri o coi club?
«Nazionale, ovvio. Rappresenti il Paese, vinci pure per chi non sa nulla
di basket. E magari gli fai scoprire quant’è bello».
Con la Nazionale ha pure vissuto, da dirigente, il successo di un figlio.
Dal film di Sky sull’oro di Parigi ’99 affiora che furono giorni decisivi per il vostro rapporto familiare.
«Vero, con Andrea eravamo stati distanti, anche fisicamente. Io con la mia carriera, lui con la sua, sempre più intensa. Ritrovarsi, stare insieme, frequentarsi, anche per poche settimane, fece bene ad entrambi.
Quel film l’ha colto bene. Uno dei tanti regali avuti dalla Nazionale».
Quando capì che il gioco sarebbe diventato un mestiere?
«Ho esordito in A a 16 anni, tanta panchina. Ma a 18, vinto il primo scudetto, feci un bel contrattino.
Beh, lì realizzai che non sarebbe stato solo divertimento. Un mestiere mai, siamo seri, non riesco ancora a definirlo così. Diciamo un’attività ludica ben retribuita. Poi, i soldi veri sono arrivati per altre generazioni, e io a papà dicevo sempre che, mi avesse fatto vent’anni dopo, ci avrebbe fatto un figurone la sua virilità e un bel conto corrente il suo figliolo. Non mi lamento, però. Il gioco ha reso bene».
Il basket di oggi è in salute?
«Sono ottimista, ma dobbiamo farci miglior propaganda, ritrovare le grandi città, riconquistare le tv.
Arriviamo a pochi, peccato».
Gli anni d’oro vissero sui grandi duelli: in genere, Milano contro qualcuno (Varese, Cantù, Roma, Bologna, Pesaro). Oggi è Bologna a ricandidarsi sfidante. Serve davvero un dualismo?
«Sì, perché il picco più alto fu la finale Milano-Roma dell’83, di cui parliamo ancora quarant’anni dopo.
Non era solo Olimpia contro Virtus, o Billy-Banco. Era Nord e Sud, San Siro e PalaEur, Bianchini e Peterson.
Grandi allenatori e grandi personaggi. Comunicatori formidabili».
Fumo o arrosto, quelle celebri polemiche, vissute da dentro?
«Intanto utili, a far parlare. Poi, vero, c’era pure tanto fumo, perché i due si stimavano, e molti assalti erano finti.
Però Peterson ci si impegnava. Mi diceva: Dino, so già cosa dirà Valerio, ma lo dirò prima io, e lui avrà solo la risposta. Contava il primo colpo e tutti e due giocavano d’anticipo».
Messina sarà il nuovo Peterson?
«L’hanno preso per quello, ha tutto per esserlo. Pieni poteri, sapere tecnico, cultura, esperienza internazionale. L’ho conosciuto bene in Nazionale. L’aspetto quieto, spesso glaciale nasconde il vulcano».
Quel che gli mancherà sarà un Meneghin in campo.
«È bravo, ce la farà anche senza».