Sepolti vivi
Sepolti vivi. Escono di notte, o quando la nebbia o la pioggia rende impossibile ai peshmerga, appostati sulla cresta, di colpirli con i fucili a lunga gittata. Spuntano dalle fessure della terra per nutrirsi dei cervi che popolano il pendio, per cercare acqua, per minare i sentieri. Talvolta, per sgozzare i pastori a cui rubano cibo e capre. Si sono portati i kalashnikov e l’esplosivo. Da due mesi, le spelonche accolgono anche i foreign fighter in fuga dalla Siria. L’Isis non può dirsi morto, non ancora. La storia del più feroce gruppo terroristico islamico non è finita.
L’avamposto curdo sul monte
Distretto di Makhmur. Settore Sei del fronte, 77 chilometri a sud di Erbil. Le undici di un mattino gelido, cinque gradi sopra lo zero. La tramontana ha spazzato il cielo e lascia intravedere, all’orizzonte, il filo lucente e sinuoso del fiume Tigri. Quella bocca nera dista poco più di un centinaio di metri in linea d’aria dalla nostra posizione, ma è solo uno degli ingressi che conducono alla tana. Ogni vallata del Qara Chokh, una cordigliera alta appena 800 metri ma estesa in lunghezza per 65 chilometri, ha in media una ventina di cavità carsiche. Ce ne sono a centinaia e alcune possono contenere duecento persone.
L’avamposto curdo del Qara Chock è una scatola di cemento armato sferzata dal vento e costruita attorno a un traliccio per le comunicazioni radio. Un muro di sacchi di sabbia la circonda e venti uomini la proteggono. Da Erbil si arriva percorrendo la strada in direzione di Makhmur e superando tre check-point.
Più il fronte si avvicina, più il traffico si dirada, e dopo poco siamo rimasti l’unica auto a seguire il pick-up bianco del colonnello Srud. Si attraversa un enorme cementificio di proprietà di una compagnia coreana, recintato col filo spinato, poi bisogna arrampicarsi per ventuno tornanti ripidi, lasciandosi alle spalle la pianura un paio di pozzi petroliferi.
Ad accoglierci con un bicchiere di the c’è Frhad, un peshmerga sorridente, con una pesante giacca mimetica, il kalashnikov sulla spalla, la sigaretta tra le dita. E la considerevole cifra di nove matrimoni alle spalle.
Tunnel sotterranei e acqua piovana
A luglio i peshmerga sono scesi lungo il versante e hanno fatto esplodere una cava. Ciò che hanno scoperto durante la perlustrazione successiva li ha lasciati esterrefatti: con un martello pneumatico i jihadisti avevano scavato un tunnel sotterraneo lungo due chilometri, non rettilineo ma a zig-zag, secondo una tecnica militare usata dai giapponesi nella Seconda Guerra mondiale per proteggersi dagli assalti. Nell’antro hanno trovato tappeti, mucchi di lattine di fagioli e riso, bucce di anguria e acqua piovana che spillava dalla parete come fosse una fontana di casa. L’ambiente era umido, ma non freddo. D’un tratto tutto è apparso chiaro: la domanda che si erano aveva finalmente una risposta.
Resistono là sotto grazie all’acqua potabile, di cui questa zona è naturalmente ricca. D’estate usano le polle come frigorifero, per rinfrescare angurie e conservare le lattine del cibo. Gli aerei della Coalizione internazionale, ora fermi per lo stallo seguito ai missili iraniani, ad ottobre ne avevano bombardata una dove i miliziani, e le capre dei pastori, bevevano. Gli iracheni hanno provato ad avvelenarle con il cianuro. Tutto inutile.
Al colonnello Srud, 48 anni, cinque figli e il distintivo del Command Forces 80 sulla mimetica, servono poche parole per riassumere il guaio in cui si trovano. «Da questa parte del fronte ci siamo noi peshmerga. Laggiù, a una decina di chilometri, i soldati dell’esercito iracheno controllano quei tre villaggi curdi. Nel mezzo c’è l’Isis. E si sta riorganizzando». Tempo fa un cercatore di tartufi bianchi si è avventurato da queste parti: lo hanno ritrovato con la testa tagliata e appoggiata al corpo, solo perché sul cellulare aveva delle foto di un amico peshmerga. A dicembre, cinque soldati iracheni sono saltati in aria lungo il viottolo che collega i tre villaggi di Ali Rash, Bardashi e Kalata Soran. Gli irriducibili dell’Isis sono ombre, ma sono letali. Nella zona cuscinetto 5.000 terroristi Siamo nella terra di nessuno, quella che gli analisti militari definiscono la “zona cuscinetto” tra il Kurdistan e il resto dell’Iraq, tuttora contesa tra le due parti: uno iato nel deserto, in alcuni tratti largo appena due chilometri, che si è aperto nell’ottobre 2017 dopo la violenta avanzata ordinata del governo di Baghdad per reazione al referendum curdo sull’autonomia. Per i fedelissimi del Califfato fuggiti da Mosul e dalle altre roccaforti nere, è il luogo ideale dove riparare. Zanyari, l’agenzia di intelligence curda, stima in 5mila i terroristi che popolano la “zona cuscinetto”, ma al conteggio vanno aggiunte le cellule nascoste nelle periferie delle città.
Il Comando centrale di Erbil ha diviso tutta la linea del fronte in otto settori. Il Sesto, affidato al generale Sirwan Barzani, è il più caldo di tutti. Ancora pochi giorni fa, l’avamposto del monte Qara Chokh è stato investito dai proiettili dei cecchini. E’ situato in una posizione strategica, del resto. Da quassù i peshmerga, con visori a infrarossi e droni, vedono i miliziani rifornirsi d’acqua nelle tre sorgive naturali della valle, e li vedono penetrare nelle linee irachene, sempre più sguarnite, in sella a moto con marmitte silenziate, con cui raggiungono villaggi sunniti dove trovano appoggio.
“La coalizione deve restare”
Il generale Sirwan Barzani lo incontriamo al Campo delle Tigri Nere, il quartier generale del Sesto settore. «Solo nel 2019 abbiamo subito 400 attacchi», esordisce, mentre siede accanto ai suoi ufficiali. Con una penna laser illumina una cartina in bianco e nero appesa alla parete. «Nel 2017 la catena del Qara Chokh era controllata da noi e l’Isis non c’era. Quando però sono arrivati i carri armati iracheni abbiamo arretrato. Sto schierando 14.500 peshmerga. Abbiamo bombardato le grotte, ma ce ne sono troppe. Attaccarle via terra? Impossibile. Perderei troppi uomini. I foreign fighter provenienti dalla Siria sono un allarme grave, la missione della Coalizione è fondamentale e deve continuare altrimenti l’Isis risorgerà», scandisce il generale. E se gli uomini delle caverne si riorganizzano, a rischiare non sarà solo l’Iraq o il Medio Oriente. Saremo tutti.