La Stampa, 17 gennaio 2020
La bellezza della ghiaia
Se calpestata la ghiaia parla, se rastrellata canta: il suo è un rumore ben familiare per chi è cresciuto in un vecchio giardino, quando la ghiaia era ancora l’indiscussa protagonista di stradine, viali e piazzole. Al pari delle piante, ma anche dei vasi o dei terricci, veniva considerata una componente «viva» del posto, scelta sulla base di criteri precisi e circondata da speciali premure.
A ValsaliceRicordo che nel giardino di Valsalice a Torino la ghiaia aveva un calibro abbastanza grande, vista l’enorme superficie da ricoprire: chiamato come da tradizione pisello assomigliava in realtà più ad una nocciola selvatica.
Veniva rastrellata nelle prime ore del mattino, subito dopo la visita al pollaio e alle conigliere e la preparazione della zuppa ai cani. Non c’era giorno che passando non si strappasse via qualche malerba: la pulizia dalle infestanti, essendo giocoforza (e per fortuna!) fatta a mano, era un’impresa degna di un Sisifo in versione giardiniere, quotidiana e senza fine. Intorno ai Santi poi la ghiaia veniva radunata in grandi mucchi conici, i cosiddetti barôn, di modo che la pioggia e il fango non la sprofondassero ulteriormente e che spazzando via la neve (allora un appuntamento fisso di ogni inverno) non si disperdesse la materia prima.
Una spesaNelle annuali voci di spesa del giardino la ghiaia aveva un suo inevitabile peso: in primavera, quando era tempo di ridistribuirla nei vialetti, la vecchia non bastava quasi mai ed era necessario un carico integrativo, che in genere arrivava in città dalle vecchie cave di Carignano. Naturalmente ogni fiume ha le sue ghiaie e ogni giardino le sue tradizioni: se a Roma quella del Tevere spesso è oblunga e a Carrara bianca o grigia pallida, ottenuta dal marmo ed elegantissima, nei giardini del vecchio Piemonte proveniva dal greto del Po.
Bionda e traslucidaQuella di Carignano era (e a mio giudizio è ancora) tra le più belle: bionda, quasi dorata, translucida e rotonda... Lussi di un tempo lontano e rigorosamente limitati al giardino di città: in quel di Revello si preferivano soluzioni più spartane e definitive, come i vecchi pavimenti coperti di ben arrangiati ciottoli di fiume o anche solo la terra battuta mista a sabbia.
Proveniva dai giacimenti dei ruscelli delle campagne vicine o dall’annuale pulizia delle bialere. Tutti materiali poveri, che in fondo rimanevano tali anche quando lavorati e dunque di fatto più costosi. La ghiaia, specialmente se scelta (come sempre si faceva un tempo) dalle cave locali, per quanto pregiata non stonava mai con il posto, non diventava mai un’esibizione sfacciata.
Sfumature impercettibiliLe differenze si manifestavano con discrezione, in sfumature quasi impercettibili all’occhio non esperto: era tutta una questione di granulometrie, di spessori e tonalità. Soprattutto c’era, dal giardino più umile a quello signorile, una mentalità ben diversa da oggi, fatta di vecchie abitudini, di piccoli accorgimenti, di continue manutenzioni.
Ormai nessuno ha più voglia di starci dietro: è il trionfo delle ghiaie soffocate nel glorit, delle esotiche levigature dell’iroko, delle sequenze senza fine di autobloccanti o peggio ancora degli asfalti quasi mai drenanti.
Pavimentazioni statiche e preferibilmente imperiture, totalmente mute: il più possibile asettiche in una sola parola. Cosa rimane dunque della vecchia ghiaia? A malapena ci si accorge della differenza che passa tra quella di fiume, naturalmente levigata, e quella spaccata a macchina, assai meno affascinante e ben più economica. Solo i più fortunati tra i giardini storici se la possono ancora permettere: all’Isola Bella il lunedì mattina, prima dell’apertura, i giardinieri devono ripulire le aiuole di tutta la ghiaia più o meno involontariamente sparsa dai visitatori durante l’affollato weekend, rimetterla sui viali e rastrellarla.
La dimensione dei granuliNei Giardini Reali di Venezia, appena aperti, la grande questione è stata sulla dimensione dei granuli: in generale piacciono più piccoli, ma non bisogna dimenticare che spesso si attaccano alle suole e saltano da tutte le parti. Un lastra di pietra come zerbino davanti agli ingressi degli edifici può essere in questi casi una giusta soluzione e risposta...
Non solo di ghiaie parla il bellissimo libricino di Aldo Molinengo, Pietre di Saluzzo, ed. Mirabolano 2018: un preciso e sapiente resoconto delle pietre, dei ciottoli e delle rocce della Valle Po e dintorni, un vero inno alla riscoperta dei posti che abitiamo, alla consapevolezza anche della storia più minuta, alla conoscenza di un territorio per quanto ridotto. Anche questa è cultura. Anzi, forse soprattutto. Evviva la ghiaia!