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 2020  gennaio 16 Giovedì calendario

Storia dei soprannomi

Se il cognome ci viene trasmesso per via ereditaria e il nome ci viene assegnato dai genitori, il soprannome è ciò che meglio rappresenta la nostra personalità. Al punto che i Romani avevano incorporato il soprannome, da loro chiamato cognomen, nella definizione onomastica di ciascun individuo. Di quest’abitudine è rimasta traccia nella storia d’Italia, il Paese per eccellenza dei soprannomi: la loro forza è stata tale che spesso essi sono diventati cognomi. Si pensi ad alcuni tra quelli più diffusi nella Penisola, Bianchi, Rossi, Mancini: sono tutti originati da nomignoli che servivano a motteggiare qualcuno per essere incanutito precocemente o per avere i capelli rossi, o a connotare chi avesse perso l’arto destro e fosse rimasto mancino. Ma, oltre che di padre in figlio, i soprannomi si sono estesi di paesano in compaesano, diventando epiteti identificativi di una comunità: così, in alcune filastrocche, i vicentini sono chiamati Mangiagatti, i veronesi Tutti matti, i padovani Gran dottori, i milanesi Tagliacantoni. A fare genealogia e tassonomia dei soprannomi ci pensa un gustoso saggio di Enzo Caffarelli, Che cos’è un soprannome (Carocci, pp. 142, euro 12). Il libro affascina innanzitutto perché nessuno è al riparo da un appellativo aggiunto al nome: bastano un difetto fisico o di pronuncia, la somiglianza con un animale o un’azione buffa compiuta in una circostanza per venire bollati a vita con un nomignolo. 

ISPIRATI AL CIBO
L’autore si diverte a distinguere tra soprannomi legati a marchi commerciali (Er Nutella si spalmava sulle ragazze, Er Manzotin aveva modi rudi, Er Findus, incapace di cucinare, ricorreva sempre a cibi surgelati), soprannomi al contrario (era detto il Muto perché parlava troppo, lo chiamavano Gigante perché era bassissimo), originati da sgangherate espressioni in inglese (Kutemé era un tale che, tornato dall’America, ripeteva sempre, storpiando, «good man») o attribuiti a un gruppo linguistico (gli emigrati siciliani in Svizzera venivano ribattezzati Minghiaweisch, deformazione dell’abitudine a dire «Minchia, capisci?»); e poi soprannomi ereditari (il bisnonno era detto Cioccolataro, il nonno Cioccolatone, il padre Cioccolatino, il figlio Gianduia) o duali (Cip e Ciop affibbiato a due ragazzi, uno biondo e l’altro bruno, che stavano sempre insieme). Ma soprattutto l’attribuzione dei soprannomi affascina quando riferita a personaggi celebri. E qui l’autore tira fuori delle chicche: se Garibaldi è noto come il Nizzardo e l’Eroe dei due mondi, pochi sanno che all’inizio veniva chiamato Giovane Gallo, nel senso di spaccone (oltre a essere ribattezzato Duce dai suoi soldati); Karol Wojtyla, quando ancora non era il Papa Viaggiatore e l’Atleta di Dio, fu per i suoi allievi zio Carlo e Martyna perché somigliava a un calciatore polacco di Leopoli, tale Henryk Martyna. Alcuni grandi dell’antichità dovettero fare i conti con nomignoli-sfottò legati a difetti fisici: Ovidio era detto Nasone, Plauto significava «colui che ha i piedi piatti», Caligola aveva i piedi piccoli (lo prendevano in giro per le calzature militari, le caligae, che gli andavano larghe), Cicerone aveva un cece, ossia un mega-porro sul viso. Anche alcuni pittori, più che per la perfezione dell’opera, divennero noti per la deformità fisica: se il Guercino non ci vedeva bene da un occhio, Pinturicchio significava «pittorucolo» o «piccolo di statura». Soprannomi derisori toccarono pure ai Borbone: se Ferdinando I era detto Re Nasone e Lazzarone, Francesco II venne ribattezzato Franceschiello per via dell’insignificanza politica. Venendo alla politica recente, i leader di sinistra hanno subito una deminutio progressiva pure nei soprannomi: si è passati dagli altisonanti Grande Timoniere (Mao), Baffone (Stalin) e Migliore (Togliatti) ai meno illustri Baffino D’Alema, Cicciobello Rutelli e Mortadella Prodi. 

CALCIATORI
Tra i calciatori, Pelé, nomignolo che prendeva in giro le sue difficoltà di pronuncia, poi ci guadagnò venendo immortalato come O Rey, mentre Maradona fortunatamente verrà ricordato come El pibe de oro anziché come Prestipedatore, prestigiatore coi piedi, soprannome non troppo riuscito attribuitogli da Brera. E se, tra i cantanti, Fabrizio De André è noto come Faber non per un abbreviativo del nome ma perché solito giocare coi pastelli Faber, Claudio Baglioni ha fatto in fretta a dimenticare il soprannome di gioventù: Agonia, per i maglioni a collo alto, gli occhiali scuri e i testi “gotici” ispirati ad Edgar Allan Poe che non sembravano proprio inneggiare alla voglia di vivere.