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 2020  gennaio 16 Giovedì calendario

Intervista a Roberto Andò

Dice Roberto Andò, con la sua voce calma, che Il bambino nascosto è «un viaggio di rinascita», ed è vero: Gabriele Santoro, professore di pianoforte da decenni chiuso in sé stesso e nella sua amata musica, che per auto-punizione vive in una brutta casa a Forcella, un giorno, senza sapere come e perché, si ritrova in casa il figlio dei vicini, Ciro. Ciro ha dieci anni ed è figlio di un camorrista: non parla, ma nei suoi occhi si legge la paura, per uno scippo che ha commesso contro la persona sbagliata e, per il quale, mezza Napoli (criminale) gli dà la caccia (padre compreso). Il bambino nascosto (La nave di Teseo) è il secondo romanzo di Roberto Andò, nato a Palermo nel 1959, regista di teatro, di lirica e di cinema, dopo Il trono vuoto (Premio Campiello Opera prima), che poi è diventato il film Viva la libertà, con Toni Servillo e Valerio Mastandrea. In questi giorni Andò è a Milano, in veste di regista d’opera: «Ho appena iniziato le prove di Il Turco in Italia, alla Scala».
Che emozione si prova a lavorare alla Scala?
«Bella. Ho curato la regia di tante opere, però la Scala è il teatro dei teatri, senza dubbio. Il debutto sarà il 22 febbraio».
Così presto?
«Non è presto, ci sono quaranta giorni. Di solito c’è solo un mese per provare».
Un periodo denso.
«Beh, la Scala mi aveva chiamato tre anni fa. Il libro è il frutto di un lavorio lungo alle spalle, anche se è uscito ora».
Diventerà un film?
«Comincerò a girare dal 14 aprile, con Silvio Orlando come protagonista: Gabriele Santoro è proprio lui, nella sua implosione tenera».
Che personaggio è Santoro?
«È uno di quei personaggi che hanno un colloquio intenso con sé stessi e, forse, meno con il mondo. Un uomo colto, immerso nella musica e nel silenzio, con una vita inespressa, costruita su basi potenziali. Vive in un dormiveglia e, quando arriva questo bambino, che si trova in casa, ne intuisce la paura e lo accoglie: compie una scelta istintiva, senza ritorno e, in qualche modo, è costretto a svegliarsi, poiché è l’unico a poterlo salvare».
Perché Napoli e non Palermo, la sua città?
«Proprio perché avevo bisogno di un’altra città, per fantasticare meglio. Poi questa è anche una storia criminale, e le regole della camorra e della mafia sono diverse. Una storia così può avvenire in Sicilia ma, per il suo andamento, e per l’idea di spiare il crimine di sbieco, Napoli era più adatta: il crimine a Napoli è anarchico, mentre la mafia ha un’idea di ordine, è gerarchica nell’organizzazione. Nelle maglie, più aperte ma non per questo meno feroci, della camorra, è più facile si insinui qualcosa di inatteso».
La musica è protagonista del libro. È sempre stata importante per lei?
«Sì. La musica integra le parole. E ci permette di non parlare, perché, anche se è un linguaggio che ci accaniamo a descrivere, ha una sua autonomia totale, come diceva Proust».
Come si passa dalla letteratura al cinema, e viceversa?
«Non so. Scrivo da sempre, mi sveglio presto al mattino per scrivere, perché conduco molte vite... Racconto in un modo in cui non potrei con il cinema e il teatro, linguaggi diversi, che amo altrettanto; ma la letteratura ha una responsabilità unica, quella di raccontare il pensiero, i tratti che non possiamo ricucire, e questo mi serve, e mi piace. Così, dopo anni di ritrosia, mi sono deciso a pubblicare».
Il romanzo precedente è diventato un film. Come è andata?
«Diceva Pasolini che, quando decidi di fare un adattamento, devi trovare un elemento di novità, una necessità. Per esempio, il finale di Il trono vuoto è sovvertito: nel film ho trovato una chiave inedita e, anche con Il bambino nascosto, mi sono convinto quando ho trovato un elemento di novità».
Ha una lunga carriera di regista. Ha cominciato con il teatro?
«Con il cinema, in realtà: da giovane, a 19 anni, ero assistente di Francesco Rosi, e poi lo sono stato di Fellini. Poi ho esordito in teatro ma, prima ancora, scrivevo. E, in mezzo a tutto questo, a 19 anni a Palermo ho incontrato Leonardo Sciascia, che è stato il mio vero maestro, perché mi ha tolto dal pudore eccessivo di una certa età della vita, e mi ha detto: Sono sicuro che tu scrivi; e, così, mi ha indotto a fargli leggere certe cose avevo da parte».
E poi?
«E poi questo spiega in qualche modo la mia poligrafia, che si potrebbe anche chiamare schizofrenia...».
A parte Sciascia, chi considera suoi maestri?
«Sicuramente nel cinema Rosi, e poi Harold Pinter, che per me era da sempre inarrivabile e con il quale, quando ci siamo incontrati, è nata subito un’amicizia. Difficile trovare un tale condensato di poetica e capacità di raccontare il non detto, la zona riservata che è il campo di forza della letteratura. Un incontro straordinario».
Come è successo?
«L’ho incontrato a Palermo, per una sua regia di Ceneri alle ceneri, in un festival che dirigevo. Per quasi un mese abbiamo trascorso ogni sera insieme e siamo diventati amici: di qui il film che ho girato su di lui, Ritratto di Harold Pinter, presentato a Venezia, e poi i suoi spettacoli che ho portato in scena, fra cui Vecchi tempi: lo aveva proibito a Visconti, poi aveva ritirato i diritti, e li ha ridati a me...»
In che cosa è stato maestro Pinter per lei?
«Uno scrittore di particolare rigore: l’interesse per certi temi, anche civili, legato però al senso poetico, senza farli diventare espliciti o predicatori, attraverso un linguaggio preciso che deriva dalla grande lezione di Beckett, di cui è stato continuatore».
Quanto conta la Sicilia nelle sue opere?
«Penso conti molto, sempre, anche quando faccio film girati totalmente altrove. Ma, come molti prima di me, ho presente l’importanza di creare ponti, perché la Sicilia è un’isola».
Senta, come ha fatto, a 19 anni, a lavorare con Rosi?
«Gliel’ho chiesto. Era a Palermo per girare Cadaveri eccellenti e gli chiesi di farmi fare l’assistente: esaudì la promessa con Cristo si è fermato a Eboli. Sono stato fortunato, molto, ma certi incontri avvengono se hai voglia che avvengano».
C’è qualche similitudine fra romanzo e cinema?
«Le dico questo, che è una mia riflessione. Nel cinema italiano c’è stato un grande periodo, legato al realismo, con i grandi fondatori del neorealismo, De Sica, Rossellini, Visconti e, da lì, un ramo che arriva fino a oggi. Nello stesso tempo, ogni tanto viene fuori un altro sguardo, che definirei romanzesco, il quale non fa a meno della realtà, ma la coglie in modo diverso, e mi sembra di appartenere a questo modo di fare cinema, che non ha niente di letterario: romanzesco significa cogliere nella realtà l’opzione del possibile, non quello che è successo, bensì quello che potrebbe succedere. È il filone di Bellocchio, di Bertolucci e, in fondo, di Sorrentino».
Come sta il cinema italiano?
«Trovo ci sia una vitalità importante, depressa dai risultati di una crisi di transizione che riguarda i modi di fruire il cinema. Però le opere ci sono».
E il teatro?
«È un luogo di resistenza: vedere qualcosa che si realizza hic et nunc, che ogni sera cambia... Con il conforto dei numeri: i teatri sono pieni».