«È una installazione-performance che non ha le caratteristiche di uno spettacolo da palco — spiega Castellucci — nato nel 2018 da una committenza del Centre Pompidou di Bruxelles per il Kanal, un vecchio deposito e autolavaggio Citroën poi chiuso per farne un museo».
Un garage, trenta automobili sotto teloni bianchi, cinque officianti, giganti neri su tacchi a spillo e un tema che parla di arte e artigianato. Cosa lega tutto questo?
«Questi attori africani li ho immaginati come predicatori, in memoria del dolore africano. Pastori di anime e pecore, perché quelle automobili sono un po’ un gregge dormiente, creature a motori spenti sulla cui impotenza i pastori vegliano portando oggetti d’uso quotidiano. Li ho voluti sui tacchi per enfatizzarne la potenza femminile, il primato della donna nel miglioramento della vita come ornamento, decoro. Sono allusioni, ogni spettatore fa il viaggio che vuole. La vita nuova del titolo è quella che può generare dal lavoro, dall’arte utile, dall’ornamento legato ai poveri oggetti del quotidiano che migliorano la vita».
È una rivendicazione dell’artigianato sull’arte?
«Sì. Il riferimento è al filosofo Ernst Bloch il quale invocava un’arte democratica, che allevia la fatica, che miri a eliminare la povertà. Ma anche ai preraffaelliti, William Morris che faceva tappezzerie per le case degli operai, alla secessione viennese, non certo all’arte contemporanea».
Perché? Secondo lei l’arte contemporanea è in crisi?
«Trovo che non sia più capace di toccare il cuore degli uomini».
Però lo afferma attraverso un’opera d’arte, o no?
«Fare arte è anche avere a che fare con i demoni dell’arte. Rivendicare il valore dell’artigianato è come una dose di veleno che gli artisti devono assumere per specchiarsi in un prodotto utile e necessario ai bisogni quotidiani. Artisti che mi piacciono ci sono, come Michael Smith che lavora con oggetti trovati in strada, ma l’impressione generale dalle mostre è un terribile déjà-vu, un’arte definita solo dalla stima economica, mercificata».
Anche il teatro corre questo pericolo?
«Il teatro è sempre in pericolo, ma in un altro senso. È un’arte che non lascia traccia. Non è mai merce, ma esperienza. E questa sua fragilità è la sua potenza, gravida di futuro».
Restiamo al teatro. In Italia lei lavora poco. Quest’anno, a parte Spoleto, nessuna produzione, solo la ripresa a Pavia e Torino di "Schwanengesang D744", del 2013, già visto in mezza Europa. Perché?
«Forse non è una domanda per me. Io vedo solo che la capacità produttiva qui, rispetto ad anni fa, è ridotta al lumicino. E non per i mezzi economici: parlo di filosofia di creazione, tempi di prove, scelta dei titoli. Opera e teatro sono sparite dal dibattito culturale ma all’estero le terze pagine dei giornali sono occupate da musica e prosa. Il degrado è iniziato trent’anni fa; cultura è diventata una parola ingombrante. Per le destre è una cosa elitaria, ma è una scusa politica per colpire la libertà di espressione. Eppure in Austria, per esempio, la destra non è così».
A proposito di Austria, Festival di Salisburgo. Un cenno al suo Don Giovanni?
«Sarò al fianco del direttore Teodor Currentzis. Il suo è un Don Giovanni duro, perturbante, nel segno del fantasma del padre. Per me è una prima volta con questo capolavoro, a cui ci si deve abbandonare. Perché se il teatro di prosa dà libertà, quello musicale ha molti limiti ma sono limiti di straordinaria bellezza; l’orchestra, i cantanti, la musica sono una tale potenza, che talvolta nelle prove piango, dimenticando il mio mestiere».