Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2020  gennaio 15 Mercoledì calendario

La mia ossessione per Calvino

L’attenzione critica e storica nei confronti della figura e dell’opera di Italo Calvino non tende a diminuire: anzi. È nato fra le Università di Roma e di Milano un “Laboratorio Calvino” che – oltre a promuovere seminari e convegni come quello sul Barone rampant e di cui ho già parlato su queste colonne – ha assunto compiti di conservazione archivistica davvero importanti. Ancor più recentemente è apparso un libro, Una lunga fedeltà a Italo Calvino di Giovanni Falaschi, che ripubblica numerosi saggi dell’autore e un corpus di lettere, edite e inedite, di grande interesse.
Ma non è di questo che voglio oggi parlare. Italo Calvino è un “classico”, se a questo termine si dà il significato che merita. Ora brevemente mi autocito: «Il classico non è uno che “riproduce” e “ripete” il mondo: è uno che, ancorché battendo orme estremamente praticate e autorevoli, lo scava in profondità e in modo completamente nuovo, come un esploratore di prima esperienza». E aggiungevo (a questo punto l’origine dell’autocitazione dovrebbe chiarirsi senza difficoltà): «Bisogna arrampicarsi sugli alberi, e restarci il più a lungo possibile, per sapere davvero come siamo quaggiù».
Se lo si guarda da questo punto di vista, Calvino è un classico di inusitata e straordinaria ricchezza. Percorre la non grande distanza che separa il suo primo libro, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), dalla sua morte precoce (1985), esplorando in più modi – diversi ma sempre coerenti fra loro – la possibilità di “conoscere” e “rappresentare” il mondo, riportandolo alla fine nell’organismo vivente di una soluzione tematica e stilistica compiuta (la cosiddetta letteratura). E tutto questo quando già tutto cominciava ad apparire definitivamente compiuto, e quindi per molti altri irrimediabile.
In pieno Novecento il nostro scrittore rema contro gli stigmi della dissoluzione crescente della cosiddetta “tradizione”, la quale ha un rapporto strettissimo, pressoché consustanziale, con la nozione e la pratica del “classico”. Con lui sono Carlo Emilio Gadda; Pier Paolo Pasolini, anche se con qualche limite dovuto all’irruenza delle passioni; e, allargando di molto il discorso, Franco Fortini, il quale osò associare l’eredità della più autentica tradizione letteraria passata e presente al verbo rivoluzionario, marxista ed egualitario.
Oggi di tutto questo, sul piano della creazione letteraria, non resta nulla. La conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è la moltiplicazione atomistica della ricerca: centinaia, migliaia di titoli, ognuno dei quali va per conto suo, non ha nessuna relazione con il passato (semplicemente lo ignora), non si pone nessun problema di scendere in profondità, anzi, esattamente al contrario, mira alla probabilistica individuazione di quei canali che mettano più facilmente in comunicazione ciò che è più uguale a ciò che si pensa e si scrive: scrittore uguale lettore, lettore uguale scrittore. Qualche eccezione c’è, bisognerebbe studiarle meglio per capire come riescano a funzionare nonostante tutto certi meccanismi di reazione, ma il quadro generale è quello finora descritto.
(Naturalmente, mi rendo perfettamente conto che la fenomenologia letteraria che sto cercando di descrivere non è che una manifestazione, sul piano storico universale, di una fenomenologia più vasta, che comprende i fenomeni politici e quelli intellettuali, la dimensione etico-politica e persino quella sociale, inclusi il modo d’essere della gente, il suo rapportarsi con il mondo e perfino con se stessa. Anche qui c’è poco da spiegare: sono fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti e di cui ci lamentiamo ogni giorno, non solo in Italia, ma da qualche tempo a questa parte in Italia molto più che altrove).
Se le cose stanno così, la domanda è: non è arrivato il momento di chiedersi perché tutto questo è accaduto? E, per limitarci soprattutto ai casi nostri: nel seno della catastrofe – tenendone conto, invece di ignorarla – la letteratura può ancora aspirare a un ruolo che non sia di mera presa d’atto dell’esistente? Naturalmente, non basta porsi una domanda per avere una risposta nella testa. Ma non porsene affatto, come sempre più spesso capita, non significa rinunciare per sempre ad avere risposte?
Torniamo a Calvino (un’esperienza importante, per carità, non un modello!). Palomar è l’ultimo libro narrativo pubblicato da Calvino: 1983. Si compone di ventisette storie o racconti, in buona parte apparsi su grandi giornali d’informazione (e anche questo vuol dire qualcosa), prima sul Corriere de lla Sera, poi sulla Repubblica. È un libro tra quelli di Calvino forse meno valutato dalla critica. I racconti sono stati scritti fra il 1975 e l’inizio degli anni ’80. Siamo alle soglie della fase che in precedenza ho cercato di descrivere. La mia tesi è che Calvino ne dimostra una straordinaria consapevolezza, che si ritrova in tutti i punti dell’universo tematico ed esperienziale presenti nel libro.
Com’è evidente, bisognerebbe ora aprire un’analisi circostanziata dei testi, che io qui non posso permettermi. Ma l’essenziale, io credo, è questo. Calvino avverte e registra la caduta di ogni possibile spiegazione generale del mondo, da cui partire – come da tradizione – per capire, interpretare e rappresentare il mondo. Cosa resta a uno scrittore per capire, interpretare e rappresentare il mondo se, come accade oggi, non è più né pensabile né possibile una spiegazione generale del mondo? La risposta di Calvino è assolutamente inequivocabile: resta lo “sguardo”. Le cose non si possono capire e spiegare “a priori”. Ma, nonostante questo, si possono “guardare” e “guardandole” si può tentare di registrare logiche, movimenti, passioni, linguaggi umani e non umani (uccelli, tartarughe, gechi, ecc.), anzi, soprattutto non umani (e anche questo è estremamente significativo). Scrive Calvino con la sua ineguagliabile chiarezza: «D’ora in avanti Palomar guarderà le cose dal di fuori e non dal di dentro; ma questo non basta: le guarderà con uno sguardo che viene dal di fuori, non da dentro di lui» (“Il mondo guarda il mondo”).
Ci sono nella raccolta due straordinari racconti, che meriterebbero di essere imparati a memoria ed eventualmente letti in classe a studenti di ogni ordine e grado: “Lettura di un’onda” e “La spada del sole”. Non c’è apparentemente niente fuori del comune in queste due esperienze: anzi. Calvino si trova in ambedue i casi su una spiaggia, talvolta si avventura in mare, guarda le onde che lentamente gli si avvicinano e il sole che, tramontando, gli viene a sua volta incontro con il suo raggio. C’è un messaggio? Il bagnante non lo sa, ma si sforza di capire, senza forzare la realtà circostante, se c’è. Altrove il signor Palomar pensa di guardare il mondo con “uno sguardo di uccello” (“Palomar sul terrazzo”). È l’analogia che spiega di più le cose: vedere, guardare, capire... capire per quanto è possibile, e se è possibile... Perché anche questo sguardo, come ogni altra forma di conoscenza più sistematica oggi, non dà nessuna certezza che la conoscenza sia tutto o in parte raggiunta...
Qui io vedo il legame con gli affari letterari di oggi di casa nostra. Cosa ci resta per capire se non guardare? Ma attenzione: guardare non significa semplicemente osservare per rappresentare. Questo è invece il criterio oggi dominante: da ciò la moltiplicazione monadica delle soluzioni possibili. Invece: si può esser soli, come oggi siamo, e nonostante ciò afferrare il senso nascosto delle situazioni. Guardare significa sforzarsi di cogliere la logica che sta nelle cose, ovvero scoprire la logica che è in noi, per scoprire meglio la logica che sta nelle cose (ma anche viceversa, ovviamente, come spiega con estrema chiarezza il nostro scrittore). Se Calvino è un classico, come ho cercato di dimostrare, dovrebbe avere il diritto d’insegnarci qualcosa. Questo qualcosa è: fare ricerca letteraria non significa (preliminarmente e principalmente) raccontare storie: significa (innanzitutto e imprescindibilmente) vedere e cogliere il senso delle cose. Sappiamo oggi che non si può vedere né cogliere tutto: ma ogni particella del mondo, umano e non umano. E se le singole operazioni vengono prudentemente accostate, si può sperare che qualcosa di più generale – il misterioso che oggi domina le nostre esperienze e il nostro futuro – appaia in controluce fra le righe del testo.