La Stampa, 15 gennaio 2020
Atlantia rischia il fallimento
Il quartier generale di Atlantia è un edificio anonimo nella periferia est di Roma. La via è alberata, eppure siamo a pochi metri dal più grande campo rom della Capitale. I dipendenti si preparano al peggio. Negli ultimi giorni le voci che danno il governo pronto alla revoca della concessione vengono prese sul serio, al punto da aver già fatto preparare dai legali le carte della prima contromossa: un ricorso urgente al Tribunale amministrativo del Lazio per ottenere la sospensione dell’eventuale decisione. Per il gruppo controllato dalla famiglia Benetton è una questione di sopravvivenza. Nonostante Atlantia sia una multinazionale, più del trenta per cento dei ricavi arrivano ancora dalle concessioni autostradali. È opinione diffusa fra gli esperti che la linea dura manderebbe al tappeto Aspi - più o meno settemila dipendenti - e metterebbe in seria difficoltà la capogruppo, indebitata sui mercati obbligazionari per quasi undici miliardi di euro. «Qui si rischia il fallimento», ammette un alto dirigente che chiede di non essere citato. Non è tattica propagandistica: le tre grandi agenzie di rating hanno ridotto i giudizi di entrambe le società a livello spazzatura. Per evitare le conseguenze peggiori della liquidazione è pronta la cessione delle quote di Aeroporti di Roma. Ironia della sorte, lo scalo da due anni viene premiato come il migliore d’Europa.
L’ultimo tentativo per fermare la linea dettata dai Cinque Stelle è una lettera inviata al numero due della Commissione europea Valdis Dombrovskis e a due commissari: quella alla concorrenza Margrethe Vestager e al mercato interno Thierry Breton. La firmeranno almeno due grandi azionisti del gruppo, il fondo sovrano di Singapore e il cinese Silk Road, mentre manca ancora il sì di Hsbc, una delle dieci banche più grandi del mondo. La lettera è un atto d’accusa contro quanto scritto nel decreto Milleproroghe, il quale cancella l’impegno al risarcimento previsto dall’articolo 9 del contratto di concessione: dei ventritré miliardi stimati da Mediobanca ne resterebbero sette. «Misure che preoccupano noi e l’intera comunità degli investitori, perché compromette la prevedibilità delle norme e scoraggia gli investimenti». Parole che valgono poco per chi ha ancora negli occhi le immagini tragiche di Ponte Morandi, ma che dette da investitori di quelle dimensioni potrebbero costare carissime alla credibilità dell’Italia sui mercati. La lettera cita anche un precedente: il provvedimento voluto nel 2006 dall’allora ministro Antonio Di Pietro, e che provocò una procedura di infrazione.
Ecco perché fra Tesoro e Palazzo Chigi c’è ancora chi lavora a una soluzione di compromesso. Il governo ha due opzioni. La prima è stata suggerita a Giuseppe Conte dal suo mentore Guido Alpa: la cosiddetta «caducazione» immediata del contratto. È la via di maggior impatto mediatico ma anche la più drammatica per la gestione di tremila chilometri di nastri di catrame: Autostrade dovrebbe essere rimpiazzata da Anas in pochi giorni. La seconda opzione è quella di procedere alla revoca secondo quanto previsto dalla convenzione. In questo caso la revoca sarebbe formalizzata fra due mesi, solo dopo aver dato al concessionario l’opportunità di rispondere nel merito alle contestazioni. Questa soluzione lascerebbe aperta la possibilità di un ripensamento, magari dopo aver concluso la trattativa che nel frattempo va avanti sottotraccia fra Paola De Micheli e il nuovo amministratore delegato Paolo Tomasi. Sempre che il gruppo riesca a sopravvivere ai contraccolpi della revoca.