La Stampa, 15 gennaio 2020
Biografia di Massud
ADESSOX
Oggi che i talebani ringagliarditi dalle nostre ebetudini si apprestano a rientrare a Kabul da signori, e sarà la loro seconda vittoria, e gli americani cercano di cavarne i piedi in umilianti trattative con i diavoli islamisti, coprendo pudicamente, appena appena, i bagagli già pronti, che non vengano, per carità! sugli schermi non troppo antiche immagini di fughe vietnamite e irachene, che farebbe quello che chiamavano «amer sahib», il comandante signore, Ahmad Shah Massud?
Alle notizie lugubri che vengono da sud, un’altra guerra, ancora, riunirebbe i veterani tagiki attorno alla sua casa nel villaggio del Panshir, dopo aver riposto con un sospiro rassegnato il libro breviario di ogni sua sera La pietra filosofale della fortuna di un mistico persiano medievale che i nostri scolastici chiamavano Algazel. Lettura ardua, lezione severa è nel libro: svuotare il cuore di ogni odio, adempiere il proprio dovere sempre, liberarsi della avidità… Cosa c’è di più opposto che questa jihad interiore, di anacoreta, a quella dei salafiti tutto odio e sangue e mortale purificazione?
Non c’è più tempo, ora. Uscirebbe di casa, Massud, la sovrastano con aria presuntuosa e superba le cupe ombre dei monti. È terribilmente lui con i suoi precisi lineamenti di guerra: «Bisogna rimetterci le mani, dal momento che si è cominciato non c’è ragione di non finire...». la guerra è appiccata al suo mondo. Ritrova in sé la propria competenza a fare la guerra, parla con il fucile come Orlando con Durlindana sul pietrone di Roncisvalle. Nel torrente che scende nella valle l’acqua è limpida, si vedono le carcasse dei blindati sovietici, vittime delle imboscate dei suoi guerrieri tra l’82 e l’84. La sua epopea. La sua guerra santa.
L’acqua disegna piccoli gorghi attorno alla ferraglia ormai arrugginita, mulinelli del Tempo sull’inutile furore di uomini e cose. I suoi uomini griderebbero con voce possente «lascia che noi moriamo per te shahid mar shahib, martire signore!».
Già, cosa farebbe? L’argomento è suggestivo. Se ci fosse ancora Massud in Afghanistan i talebani avrebbero rivinto? Ipotesi. Massud è morto, due kamikaze marocchini, travestiti da giornalisti, apostoli assassini di Bin Laden, lo hanno ucciso nel 2001. Il nove settembre. Ricordate la data. C’è tutto in quella data. Sapeva scegliere le sue vittime l’emiro del terrore. Sapeva che la uccisione di Massud era l’antefatto necessario dell’attacco alle due torri di New York, l’avvio della sciagurata vertigine del terrore. La morte di quel singolo uomo, di quel simbolo della lotta al terrorismo fanatico nel derelitto medioevale Afghanistan, una delle faglie sismiche mondiali, era indispensabile perché l’altra guerra, quella titanica, il jihad globalizzato e planetario potesse divampare in questa epoca sgretolata.
Ci lanciava un segnale Osama, con quel delitto. Non abbiamo capito. Chi era, in fondo, per noi Massud? Nel suo unico viaggio all’estero, in Francia, lo avevano evitato i Grandi e i Grossi, impegnati a trafficare con i talebani, a disegnare oleodotti. Eppure era già Massud, l’uomo che aveva aperto una crepa mortale nell’impero dei sovietici: era il silenzio che è la saggezza degli sciocchi. Lo hanno infamato, molti esperti di Afghanistan: lo trovavano oscuramente ambizioso, poco affidabile con i suoi tatticismi, avevano scovato perfino un passato da jihadista.
Ci sono libri che escono nel momento giusto. Come la biografia di Massud opera della argentina Marcela Grad, appena tradotta in Italia da Libreria Editrice Psiche. Bisogna leggerla ora, mentre gli afgani, prudenti, fanno sparire i ritratti dell’eroe dalle case da the, dai taxi, dalle vetrine dei negozi. Quando arriveranno i talebani averli in casa sarà una condanna a morte.
Non abbiamo mai capito nulla dell’Afghanistan in occidente, gli abbiamo fatto la guerra, lo abbiamo usato come pedina ma ci è sempre sfuggito mentre guerrieri in ciabatte disfacevano gli imperi: moghul, persiani, inglesi russi, americani. Mettersi di fronte a un popolo e coglierne il carattere come se fosse un solo uomo, una sola persona è quasi impossibile in fondo.
Forse ha ragione Marcela Grad. Non si può scrivere la biografia di un uomo come Massud, l’eroe trabonda, l’uomo ci sfugge. L’unica forma possibile di narrazione è appunto quella del ritratto intimo come recita il sottotitolo. Quattro anni spesi a incontrare molti di coloro che l’hanno conosciuto e hanno combattuto con lui, a comporre un meticoloso, affascinante collage di ricordi, immagini, aneddoti, frasi. Tuffarsi nel passato di un uomo come in un sacco, consapevoli che appartiene alla razza degli eroi omerici o delle saghe cavalleresche.
Il fascino magnetico di Massud. Ha incantato tutti coloro che lo hanno conosciuto tanto da far dimenticare le sue contraddizioni: rifiutava di imporre il velo totale alle donne quando fu padrone di Kabul come gli chiedevano i mullah ma lo mantenne nel suo dominio feudale; pietoso con i nemici anche i russi che lo volevano impiccare ma capace di assistete con uno sguardo senza perdono al lento strangolamento di due suoi combattenti responsabili di saccheggio; nemico implacabile dell’islamismo ma alleato fedele di uno dei più fanatici islamisti afghani, Sayyaf. Quelli che a noi sembrano ambigui virtuosismi tattici di un signore della guerra, e Massud lo fu, integralmente, erano anche il tentativo di servire, sempre, la indipendenza del suo paese. Gli occorreva uno stato con i suoi organi, i suoi diritti e le sue forze e non un possesso tra il politico l’etnico e il tribale, residuo feudale uscito ambiguo e malcerto dai contrasti di parti interne e di debolezze esterne.
In tempi di pusillanimità Massud ha lottato, coraggiosamente, contro i due maggiori totalitarismi dei nostri tempi, quello ormai sfinito del comunismo sovietico e il serpaio dell’islamismo radicale. I fatti sono sotto gli occhi di tutti. E i fatti, come sempre, sono testardi.