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 2020  gennaio 14 Martedì calendario

Marco Paolini: «Non farò più tv»

Pochi attori italiani hanno la capacità di calamitare l’attenzione che ha lui. A riempire la scena basta la sua presenza, i pochi movimenti essenziali e precisi, che sono anch’essi narrazione. Marco Paolini è teatro. Quella voce che passare dalla cadenza veneta alla dizione più pulita è inconfondibile. La senti e non hai dubbi: è lui. Anche lo spettatore più distratti lo riconosce come quello del Vajont. Tra due mesi avrà 64 anni, molti dei quali passati sul palcoscenico a raccontare storie entrate nel cuore degli spettatori e nella storia del teatro. Domani e giovedì sarà ad Aosta (Teatro Splendor), venerdì e sabato al Colosseo di Torino con Nel tempo degli dei - Il calzolaio di Ulisse, scritto con Francesco Niccolini. Alla regia c’è Gabriele Vacis e sul palco Saba Anglana, Elisabetta Bosio, Vittorio Cerroni, Lorenzo Monguzzi, Elia Tapognani. 
Quale Ulisse raccontate?
«Il focus della narrazione è il rapporto di Ulisse con gli dei e la conseguente resa dei conti. Ormai invecchiato deve rivivere il passato, è ripartito da Itaca. E come Tiresia gli aveva detto, è andato il più lontano possibile dal mare: sulle Alpi, ai piedi dello Chalet Olimpo. Gli dei sono preoccupati da quello che potrà fare a casa loro. Nel racconto che Hermes lo induce a fare il centro drammatico della vicenda sono il ritorno a Itaca e la strage dei Proci».
Ma Ulisse che uomo è?
«Non è un eroe. I Proci e le ancelle che lui massacra non hanno compiuto azioni che meritano tale reazione. È molto lontano dall’immagine dantesca, troppo consolatoria. Non è un paladino della ragione ma del dubbio e delle contraddizioni: è sporco, contiene il bene e il male. Ma se anche fosse il peggiore degli uomini, sarebbe comunque migliore degli dei. Lo rivendica e li combatte».
Chi sono gli dei?
«In Homo Deus Yuval Harari scrive che i nuovi dei siamo noi, la parte ricca del pianeta, che punta alla amortalità. Gli dei offrono a Ulisse di essere come loro, ma lui rifiuta».
Questo è uno spettacolo in cui non c’è solo la narrazione, è molto fisico. 
«In scena siamo in 6, è uno spettacolo corale. E il coro non sta fuori dall’azione ma agisce, suona e canta. Da lì escono i personaggi utili a scena e dialoghi. Per me era essenziale che non fosse Marco Paolini che racconta una storia, io sono solo uno dei personaggi. La parola qui è azione fisica. Parola, musica e azione sono create per realizzare un elastico tra i momenti di maggiore e minore tensione».
Il suo viaggio come autore/attore è iniziato nel 1987 a Settimo Torinese con «Adriatico». Cosa c’è oggi di quel teatro?
«Nel teatro devi sempre partire da dove eri arrivato. Ogni spettacolo nasce dalla voglia di andare oltre a quello precedente. Ma non si avanza in linea retta, perciò è probabile che ciclicamente si passi vicino al via e si trovi qualcosa del passato. Per uno spettatore che mi conosce io sono sempre Marco Paolini. Ma io, che da anni lavoro intorno agli stessi temi, cerco di non ripetermi. Sia nella forma che nel contenuto. Perché se rimani incollato a quello che sai fare, sei condannato dalla vecchiaia. Invecchiare va bene, la vecchiezza, che arriva prima del tempo, no».
Cosa accomuna lei a Vacis?
«Tanti ricordi, anche intimi. Molta stima e tolleranza reciproca. Ritrovarci è una sfida: nessuno dei due potrebbe fare senza l’altro ciò che fa con lui».
Lei ha portato il suo teatro anche in tv.
«Non accadrà più. La televisione è cambiata».
Però il successo di pubblico c’era stato.
«Lasciamo che se ne occupino gli storici. Oggi il pubblico interessate a me viene a cercarmi a teatro, non in tv. Le persone che conosco non la guardano più come facevano prima, è innaturale darsi appuntamento lì».
E l’opzione streaming? Perché su Netflix può esserci lo stand up comedian e non Paolini?
«Ci sto ragionando ed è interessante. È l’unica possibilità che mi fa valutare la riproduzione di quello che faccio. Ma non mi andrebbe di mettere dei contenuti vecchi: vanno ripensati. Lo streaming non è un archivio».