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 2020  gennaio 13 Lunedì calendario

Aumentano i suicidi in carcere

Fino alla fine del XVIII secolo, il sistema carcerario in Europa prevedeva la tortura e anche le pene corporali. Questo tipo di punizioni furono concepite dopo l’istituzione della Santa Inquisizione, che introdusse anche il carcere a vita oltre a torture che al solo leggerne la descrizione si rischia di star male. Le cose migliorarono un poco con l’avvento del movimento illuminista che, grazie a Cesare Beccaria e a Immanuel Kant, diffuse il criterio d’integrità morale e fisica dei detenuti. Ciò corrispose a un’altra riforma di pensiero: si doveva condannare maggiormente l’azione, e non esclusivamente chi l’aveva compiuta. Col passare del tempo, ci si sarebbe attesi che la modernità portasse anche una nuova mentalità riferita alle pene detentive per chi si macchia di reati che prevedono la carcerazione, ma nel nostro paese le cose sono andate al contrario, involvendo invece di avanzare. Chi oggi si ritrova dietro le sbarre, alla condizione di privazione della libertà deve aggiungere, in molti casi, l’arrivo di varie forme di disagio psicologico. Esse derivano anche dalle poche opportunità lavorative, rieducative e scolastiche offerte dal nostro circuito carcerario. Come si può non cadere almeno in stato depressivo campando senza far nulla tutto il giorno, chiusi in ambienti angusti e spesso in condizioni igieniche precarie? Altro che illuminismo, questo è oscurantismo bello e buono! Una recente ricerca, realizzata dall’associazione Antigone che ha analizzato la situazione di 60 istituti di detenzione su 190, mette a nudo questo tipo di situazione che è oltre il limite dell’accettazione. Aumentano i suicidi, che nel 2018 sono stati 67. Corrisponde a un aumento del 33% rispetto al 2015, quando a togliersi la vita in cella furono in 39, e dal 2000 il dato è davvero allarmante: mille persone hanno scelto di smettere di vivere. Tra le persone libere la percentuale di chi muore volontariamente è meno dell’1%, mentre tra i detenuti il valore sale al 10,4%. Un altro aspetto critico è rappresentato dalle patologie psichiche contratte dopo la condanna. L’uso di benzodiazepine crea dipendenza, ma sono somministrate come la panacea ai mali della mente, e a causa degli effetti della Legge 81/2014 in materia di ospedali giudiziari psichiatrici, non è possibile trasferire i carcerati presso le R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza), perché è stato stabilito che il trattamento sanitario per chi si ammala psichicamente debba essere erogato all’interno dell’istituto penitenziario. Superando, di fatto, gli OPG – Ospedali Psichiatrici Giudiziari – dedicati ormai ai casi più gravi, non è stato risolto il problema. Un po’ come accadde dopo la legge Basaglia: chiusero i manicomi lasciando a se stessi i malati. Tipica riforma all’italiana. Ogni recluso ha diritto a 4 minuti a settimana di terapia con lo specialista. Nemmeno il tempo di dirsi “Buongiorno”, e ciò a causa della carenza del personale sanitario messo a disposizione dal sistema sanitario nazionale, e 1 su 4 assume psicofarmaci. Una situazione umanamente insostenibile e che meriterebbe di essere inserita tra le priorità nell’agenda di governo, per non far si che il verbo “perseguitare” diventi l’apostrofo nero tra le parole: “condanna” e “espiazione”. r