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 2020  gennaio 13 Lunedì calendario

Cesare e la lezione del passaggio del Rubicone

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Alea iacta est, il dado è tratto. Poche frasi sono passate alla storia e hanno significato così tanto per il corso degli eventi successivi come quella che fu pronunciata da Giulio Cesare nella notte tra l’11 e il 12 gennaio del 49 a.C. mentre con la XIII legione stazionava a Nord del Rubicone, il fiume che segnava il confine tra l’Italia e la Gallia Cisalpina.
La storia è nota, ma è meglio ripercorrerla. Mentre Cesare conduceva la campagna di Gallia come proconsole, il potere a Roma si reggeva sull’equilibrio formatosi grazie al Primo Triumvirato tra Crasso, Pompeo e Cesare stesso. Purtroppo, Crasso venne ucciso a Carre nel corso di una disastrosa campagna contro i Parti e così il solo Pompeo si trovò a Roma mentre il suo rivale (e suocero) combatteva oltralpe. A seguito di tumulti che portarono all’uccisione di Clodio, un nobile depravato e violento della famiglia dei Claudi che, da bravo populista, aveva però un certo seguito, il Senato conferì il consolato con poteri semi-dittatoriali a Pompeo perché ristabilisse l’ordine. 
Quest’ultimo non era mai stato troppo amato dal partito aristocratico, gli ottimati di Marco Porcio Catone e – seppur in posizione un po’ incerta - di Cicerone (amico sia di Pompeo sia di Cesare). Lo ritenevano un provinciale della classe equestre (un borghese, non un nobile), con manie di grandezza e non rispettoso delle tradizioni repubblicane. Ma un po’ come quegli elettori che pur di liberarsi della Clinton hanno votato per Trump turandosi il naso, anche gli aristocratici, pur di contrastare l’odiato Cesare, nobile di altissimo lignaggio (la sua famiglia si vantava di discendere direttamente da Venere), ma da sempre appoggiato dai populares, si rassegnarono a servirsi di Gneo Pompeo Magno.
Orbene, alla fine dell’anno 50 a.C. il futuro Divo Giulio doveva rientrare dalla Gallia, ma gli fu ordinato di venire a Roma senza esercito e senza protezione legale (l’immunità per consoli e proconsoli esisteva anche allora) con tutti i suoi avversari politici pronti a fargli la pelle in tribunale (e fisicamente), mentre Pompeo se ne stava accampato fuori dell’Urbe con le sue truppe. Cesare, tramite i suoi sostenitori in Senato, fece varie proposte di «disarmo bilaterale» chiedendo di essere eletto console «in absentia» in modo da poter tornare protetto dall’incolumità. Non ci fu nulla da fare e il 7 gennaio 49 il Senato votò un senatus consultum ultimum contro qualsiasi compromesso proclamando il discendente di Venere nemico pubblico. I tribuni della plebe sostenitori di Cesare fuggirono dalla città e il grande generale pochi giorni dopo entrò in Italia dando inizio alla guerra civile che si concluse con la sua vittoria.
Quali sono gli insegnamenti che si possono trarre da quel drammatico evento? Il primo è che l’eterogenesi dei fini domina le vicende umane. Nonostante Cesare ripetesse, secondo Cicerone, i versi della Fenicie di Euripide «se si rende necessario calpestare il diritto, bisogna farlo per la conquista della tirannia», aggiungendo peraltro «in tutto il resto è necessaria la piena correttezza», gli storici non ritengono che egli avesse programmato l’intera sua vita per diventare il Primo Uomo di Roma a vita, instaurando di nuovo la monarchia che poi, tradottasi in Impero, gli sarebbe sopravvissuta cinque secoli a Occidente e 1500 anni se si considera la propaggine bizantina. Un dado lanciato per salvarsi la pelle, proteggere la sua dignitas, per rancore verso la fazione avversa e sete di potere, avrebbe per sempre cambiato le sorti del mondo. 
Le conseguenze non intenzionali permeano l’azione politica: lo notava il senatore Bernie Sanders condannando l’attacco di Trump a Soleimani e ricordando che quando si compie un atto violento ostile è difficile prevedere dove esso porterà. Peccato che lo stesso Sanders, un socialista novecentesco, non applichi la stessa logica all’azione del governo, ritenuto in grado di assicurare senza fallo la felicità del popolo al posto del mercato. 
La seconda lezione è che, per dirla alla Keynes, «quando cambiano le mie informazioni, altero le mie conclusioni». In altre parole, soprattutto in momenti di crisi, bisogna avere la flessibilità e l’onestà intellettuale di modificare il proprio comportamento velocemente. Pompeo non si avvide del pericolo rappresentato dall’ex suocero. In fondo lui era il grande generale che aveva sconfitto tutti, dai pirati ai sovrani dell’Asia Minore, osannato, temuto, adulato. Chi era quello sciupone di Cesare per impensierirlo? Il Divo Giulio invece cambiava tattica in continuazione: conciliante o aggressivo, clemente o spietato, temporeggiatore o avventato a seconda delle mutevoli circostanze. Eppure, le sue doti militari, politiche, letterarie erano le medesime. Infatti, quando si sentì troppo sicuro di sé, cinque anni dopo alle idi di marzo del 44 a.C., la pagò cara.
In politica e negli affari, la coerenza nei principi è ammirevole, la costanza nelle strategie è rischiosa, la perseveranza nella tattica è ottusità. Nella Roma dei Cesari come ora.