la Repubblica, 13 gennaio 2020
Le parrocchie senza preti rette da diaconi sposati
«Andai a prendere i primi contatti a Venegono, nel seminario della diocesi di Milano, per iniziare la strada verso l’ordinazione diaconale. Mi chiesero quanti anni avessi – ne avevo 45 – e quando sarei andato in pensione. E poi subito mi domandarono se ne avessi parlato con mia moglie. Risposi di no. Mi dissero: “Allora fermiamoci. Vai a casa, gliene parli e poi ci rivediamo”». Francesco Nicastro ha oggi 55 anni. Sposato, due figlie di 26 e 17 anni, funzionario della pubblica amministrazione in provincia di Varese, è diacono permanente da cinque anni. Cresciuto in una parrocchia di Busto Arsizio «alla scuola del cardinal Martini», superati i quarant’anni sente di desiderare qualcosa di più. È in ricerca. Il parroco lo ascolta e gli suggerisce la strada del diaconato permanente, un ministero ecclesiale destinato al servizio nella carità: «Se il sacerdote mostra Gesù pastore e il vescovo Gesù maestro, il diacono è colui che deve parlare di Cristo servo», spiega Nicastro. All’inizio risponde di no. Poi riflette, indaga, studia, e percepisce che invece quella vocazione può essere la sua strada. Ha timore ad aprirsi con sua moglie. Ma quando lo fa, trova dall’altra parte una porta aperta. Così con la sua primogenita, che allora ha 6 anni: «Mi disse che se significava che dovevo andare ad aiutare i poveri era d’accordo». Nel 2009 inizia un percorso di studi all’Istituto di scienze religiose di Milano, incastrando le lezioni con gli impegni del lavoro e della famiglia. Quindi, nel 2014, l’ordinazione che non scombina del tutto la routine della sua vita: anche se, dice, «dopo la spesa al supermercato di sabato mattina, invece di andare al circolo fotografico vado alla Caritas».
Nicastro fa parte di un piccolo esercito, ma sempre più in espansione, di uomini sposati che a un certo punto decidono di dedicarsi a Dio abbracciando il diaconato. Sono più di 4mila in Italia, il numero più elevato d’Europa e secondo soltanto agli Stati Uniti. Sono uomini che continuano a vivere in famiglia, ma che insieme divengono ministri di Dio. Possono battezzare, benedire matrimoni, portare il viatico ai malati, presiedere funerali, celebrare la liturgia della parola, predicare, evangelizzare e catechizzare ma, contrariamente al sacerdote, non possono celebrare il sacramento dell’eucaristia e confessare. A molti di loro sono affidate parrocchie che altrimenti resterebbero chiuse. Un’attività, dunque, decisiva per una Chiesa, quella italiana, che vive una particolare crisi di vocazioni. Oggi sono circa 29mila i preti diocesani in attività. Erano 32mila nel 2010, 43mila nel 1970. Molti sono anziani, il loro numero è inevitabilmente destinato ad aumentare. Se i preti sposati non diverranno una soluzione percorribile, i diaconi permanenti saranno sempre più decisivi per evitare che parrocchie importanti non chiudano per sempre.
I diaconi non hanno l’obbligo di indossare abiti particolari, tanto che nella maggior parte dei casi è impossibile distinguerli dagli altri. Spiega Giorgio Gilardo, 73 anni, torinese, da 35 anni diacono a Luserna San Giovanni nella diocesi di Pinerolo, che «è proprio la nostra normalità che ci permette a volte un rapporto con i fedeli diverso rispetto a quello che può avere il prete». Dice: «Spesso vengono a raccontarmi i problemi della loro vita famigliare perché pensano che, essendo anch’io sposato come loro, possa capirli meglio». Anche a Gilardo l’idea della strada diaconale venne suggerita da altri: nel suo caso fu il vescovo a proporgliela. Aveva due bambini, aspettava il terzo, rispose: «Non lo farò mai». Fu sua moglie a fargli cambiare idea. «Perché no? Prova, se poi non va, ti fermi». E così ha fatto. Fino all’ordinazione, alla quale parteciparono tutti i suoi colleghi. Lavorava in banca. Gli regalarono una ventiquattrore: «Così puoi metterci dentro la stola, il camice, l’acqua benedetta, le cose che ti servono», gli dissero. Ancora oggi, quando va a trovare anziani e ammalati nella parrocchia che gli è stata affidata sulle montagne olimpiche, ad Angrogna, la porta con sé. E così fece anche il giorno del suo primo funerale. Non doveva celebrarlo lui, ma il prete non si presentò. Andò dai parenti e disse: «Credo si sia dimenticato, celebro io solo la liturgia della parola». Giovanni Tarquini, 72 anni, sposato con due figlie, è diacono permanente nella diocesi di San Severino Marche. A lui sono affidate due parrocchie in zone di campagna. Racconta: «In molte zone, il diacono sta diventando sempre più un punto di riferimento per molti ed è accettato in modo naturale. In gioventù pensai al sacerdozio, ma non ero sicuro che sarei stato capace di abbracciare quella vocazione per tutta la vita. Così mi sposai. Poi, raggiunta la pensione, l’esperienza di trovare la Chiesa spesso chiusa su diversi temi mi ha spinto a dare il mio contributo, e così ho scelto di diventare diacono».