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 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Fellini a Milano

È stato a teatro, alla fine, che l’abbiamo risuscitato. Nel rettangolo di luce. Dico abbiamo perché per metter su questo spettacolo ho mobilitato tutti i teatranti di mia conoscenza. Ho radunato gli attori parigini della nostra troupe e siamo scesi in Italia, a Pistoia, per preparare lo spettacolo al Funaro di Antonella Carrara, supremo luogo di creazione teatrale. Lì abbiamo ritrovato Antonella, Lisa, Massi, Francesca e i napoletani della Casa, Ludo, Roberto, Pako, Demi, con cui avevamo già calcato le scene italiane e francesi. Una mobilitazione planetaria: Clara, la nostra regista, ci ha raggiunti dall’Argentina, Vinoth da Chennai, Bibi da Bamako, Ximo dalla Catalogna, Babette da Bruxelles, gli altri da Montreuil e da Parigi. Tutto è cominciato con la consueta festa di benvenuto, Lia e Paolo ai fornelli, Alice e Laurent al piano, e tutti quanti alla voce, fino a tarda notte.
Dopodiché ho annunciato che avremmo fatto uno spettacolo su Federico Fellini. Titolo: Federico Fellini è disposto a ricevere chiunque voglia incontrarlo. Agli spettatori verranno date due indicazioni preliminari: portate uno strumento musicale, uno qualsiasi, va bene anche una padella, e venite con il cellulare. Imperativo, il cellulare! Guai a lasciare a casa il cellulare! 

La prima cosa che vide il pubblico del Piccolo Teatro quella sera del 20 gennaio, centenario della nascita di Federico Fellini, fu un cuore nero sospeso sopra un rettangolo bianco. Inizialmente gli spettatori non capivano cosa fossero quel cuore e quel rettangolo che sembravano fluttuare sulla scena, ma via via che gli occhi si abituavano all’oscurità, videro che il cuore era la folta chioma di un giovane che dava loro le spalle, e il rettangolo bianco un grosso quaderno aperto sul palcoscenico. Il giovane, chino sul quaderno, disegnava con foga, ispirato. Sulle prime la folta chioma impediva alla platea di vedere il disegno, sicché fu lo sfregare dei pennarelli sulla carta a ricordare agli spettatori l’epoca in cui anche loro disegnavano febbrili. Poi il disegno del giovane apparve, proiettato su uno schermo collocato di fronte al pubblico. Il giovane disegnava una folla variopinta che correva urlando, ora accompagnata dalla sarabanda di un flauto e di un oboe. Il flauto diceva che la folla era festosa, ma l’oboe faceva aleggiare un dubbio... La folla inseguiva una coppia che correva mano nella mano infilandosi in una prospettiva blu striata d’oro, come se quegli innamorati corressero sotto una pioggia di stelle cadenti.
Terminata l’opera, il giovane prese a scrivere il suo sogno negli spazi lasciati liberi dal disegno. Mentre scriveva lo raccontava, il sogno, ad alta voce. Aveva una voce nasale e flautata: 
«Giulietta e io», raccontava, «corriamo davanti a una folla che non capisco se sia ostile o amichevole, né se ci insegue o se siamo noi a trascinarla...». 
«“Federico, sarà il seguito a dircelo”, mi risponde Giulietta per tranquillizzarmi».

Nel frattempo noi, artefici di questo capolavoro, spiamo ogni minima reazione del pubblico dalla cabina di proiezione. Uniti dal sudore e dall’ansia. 
Clara ogni tanto non riusciva a trattenersi: 
«Ragazzi, lo sentite? Lo sentite questo silenzio?».
«Vorremmo tanto», sibilava Ximo facendole segno di tacere. 
«Condivido il mio personale entusiasmo», protestava la nostra regista. 
«Stai calma, Clarita, non siamo davanti a una partita di calcio, non è Argentina-Italia!».
«State un po’ zitti», sibilava Alice mandando la musica. 

Lo spettacolo era suddiviso in quattro parti. 
Si vedeva, quindi, Federico Fellini giovane che disegnava un sogno e intanto lo raccontava. Il sogno era proiettato su un grande schermo sul fondale. Venti minuti buoni di bellezza ipnotica. 
Poi Fellini sceglieva tra il pubblico gli spettatori che assomigliavano alle figure del suo sogno. E a costoro faceva fare alcuni brevi provini. Fra i molti volontari che lo raggiungevano sul palco c’erano beninteso i nostri attori. I loro brevi provini erano altrettanti «clou dello spettacolo» che avevamo accuratamente preparato. 
Nella terza parte la scena diventava lo Studio 5 di Cinecittà: riflettori, cineprese, gru, binari per carrellate, pannelli di scenografia, frastuono... Poi megafono, silenzio, ciak: il pubblico assisteva allora alle riprese di una sequenza sommamente felliniana in cui recitavano gli spettatori scelti dal maestro. 
Quarta e ultima parte: il momento sacro della proiezione. Con grande sorpresa generale, nessuno riconosceva la sequenza che era stata girata. Le angolazioni, i primi piani, le luci, la scelta delle inquadrature, il ritmo del montaggio, il suono soprattutto, il suono e la musica, insomma lo stile dell’autore mostrava qualcosa di totalmente diverso da quel che tutti credevano di aver visto. Gli attori stessi, che durante le riprese avevano pronunciato solo una serie di numeri, scoprivano quello che dicevano davvero e le voci che gli avevano attribuito per dirlo. 

Il maestro desiderava davvero risuscitare? Era questo il tema della sequenza. Era sicuro, Federico Fellini, di voler risuscitare? Avrebbe retto a quella prova? Una resurrezione non era mica uno scherzo! Il ritorno alla luce del giorno, certo, ai profumi della vita, va bene, ai carciofi alla romana e alle polpette di bollito, ci mancherebbe (dal Toscano, peraltro, il suo ristorante preferito, gli avevano tenuto il suo tavolo), era una bella tentazione, ritrovare la capacità di sognare e i fremiti della creazione, certo, però... però... il languido comfort dell’eternità, la deliziosa sensazione di planare mano nella mano con Giulietta nello spazio e nel tempo, quella riposante assenza di suspense... Un bel dilemma! Risusciterà? Non risusciterà? Il pubblico era con il fiato sospeso. Va da sé che tutto era infinitamente più sottile e profondo, più vago e misterioso, più felliniano insomma di quel che lascio intendere qui. Ma perché mai dovrei svelare i segreti di uno spettacolo che non avete ancora visto? 

«Li abbiamo presi! Li abbiamo presi!», continuava a ripetere Clara. 
Pigiati come sardine nella cabina surriscaldata, eravamo ormai liquefatti: quattro spugne fradicie, strangolate dall’emozione. 
«Cazzo, durante le riprese si è sminchiato il proiettore su rotelle», sibilava Ximo. «Guardate, c’è come un tremolio lato giardino».
«La risalita dell’oboe è da pelle d’oca», mormorai ad Alice. 
«Zitti, che mando i titoli di coda», annunciò alla fine Mathias. 

I quali titoli di coda avevano in serbo un’ultima sorpresa per il pubblico che ora faceva partire gli applausi. Gli spettatori vedevano scorrere i loro nomi! Che avessero recitato o meno nel film, si scoprivano lì, menzionati sullo schermo, nel punto assegnato loro a vita dall’alfabeto. «Ma sono io!», esclamò qualcuno.
Quelli che cominciavano ad alzarsi tornarono a sedersi. «Paola, guarda, ci sei», disse qualcun altro. 
Gli applausi si fecero più forti. 
«Ci sono anch’io!». 
Ognuno andava in cerca di sé stesso, e tutti si trovavano, attori delle loro stesse vite, presenti alla loro presenza, poiché erano proprio loro, sì, erano lì, sullo schermo! 
«Ci sono! Ci sono!».
«Guarda, zia Adalberta, ci sei anche tu!». 

I titoli di coda scorrevano al suono della tarantella che Alice aveva composto per accompagnare il disegno dell’inizio. Era un motivetto allegro e saltellante che fece venire a tutti una gran voglia di muoversi. Allora Massi, il nostro Massi (Massimiliano Barbini, di Pistoia), si alzò fra il pubblico svettando con tutta la sua statura, si fece largo con il suo trombone e riprese il tema della tarantella dirigendosi maestoso verso il palcoscenico. Babette e Paolo gli andarono dietro, la prima al violino e il secondo alla chitarra.
Come avevamo sperato, gli spettatori che avevano portato uno strumento – ed erano in tanti – li seguirono come un sol uomo. Pako, Ludo, Lisa e Demi, truccati da clown felliniani, si trascinarono dietro tutti gli altri, compresi i più timidi, e si ritrovarono tutti in un immenso corteo danzante, come alla fine di 8½. 
E tutto il pubblico si riversò fuori dal teatro passando dall’entrata degli artisti. Dietro il trombone di Massimiliano Barbini risuonavano le trombe, le fisarmoniche, le armoniche a bocca, i piatti, i tamburi, i flauti, i violini, i clarinetti, gli scacciapensieri, le pentole, l’intera strepitosa chincaglieria musicale degli spettatori.
I milanesi del Piccolo facevano una serenata notturna ai milanesi di Milano, suonavano per gli abitanti della via che ridevano, per quelli che imprecavano, per quelli che si barricavano in casa e per quelli che guardavano dal balcone:
«Ma cosa succede? Cos’è ’sto casino?». 
«Pare che sia risuscitato Fellini!». 
«Sei impazzito?». 
«Manco per sogno, non la sentite la musica? Si festeggia la risurrezione di Fellini!». 
«Ma davvero? Anche quella di Giulietta, allora?».
«E certo, e pure quella di Nino Rota, senti!».
Così quella notte del 20 gennaio gli abitanti di via Rovello scesero in strada raggiunti dagli abitanti di via San Tomaso, cui si unirono quelli di via Broletto e i musicisti di corso Garibaldi, e tutti insieme imboccarono via Dante finché Milano non fu altro che musica. Una musica tanto più argentina dopo tre giorni di gran vento che avevano restituito alle strade la loro sonorità di cristallo.
Alla fine una folla immensa invase il Parco Sempione, dopo che grazie ai cellulari degli spettatori e ai social network si era diffusa la notizia che Federico Fellini aveva deciso di risuscitare quella notte del 20 gennaio sul palcoscenico del Piccolo Teatro e invitava tutti a festeggiare l’avvenimento al Parco Sempione, insieme con Giulietta e Nino. 
«Al Sempione? Il parco del Castello Sforzesco? A quest’ora però è chiuso, il Sempione, no?». 
«Ma figurati un po’, Fabio, se uno che può permettersi di risuscitare quando gli gira non ha abbastanza santi in paradiso per far aprire il Parco Sempione ai cittadini milanesi...».
«Ah già, in effetti...».
Così quella notte tutta la città confluì al Sempione invitata dagli spettatori del Piccolo Teatro, e lì furono accesi decine di bracieri che più felliniani non si può, quasi che Milano fosse diventata un sobborgo di Roma. Puntuale arrivo della polizia, spegnere tutto, è tassativamente vietato, ma ormai la gente era troppa, tutti che ballavano intorno alle fiamme, giocavano, cantavano... Morale: gran baldoria fino a ore incredibili, tutti quanti, poliziotti inclusi. 
Fino a che ora, in realtà? Non lo so, io non c’ero. Me l’hanno raccontato Ludovica e Roberto. Ridevano: 
«Tutti quei milanesi che affluivano verso il Sempione accompagnati dalla musica sembravano un raduno di uccelli nordici in procinto di migrare verso sud. Semel in anno...». 
(traduzione di Yasmina Melaouah )