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 2020  gennaio 12 Domenica calendario

Giappone, un telefono per parlare con i morti

In Giappone esiste un posto di frontiera tra la vita e la morte che è appollaiato sul fianco di una collina nel Nord-Est del Paese, aggrappato alla pancia della Montagna della Balena (Kujira-yama), in un giardino rigoglioso che guarda le stagioni passare. È lì che siamo diretti. Al Telefono del Vento, a incontrare Sasaki Itaru, il guardiano di uno dei luoghi di resilienza più potenti del mondo. Da Kamakura, dove abitiamo, è una sorta di lunga odissea. Tre treni, di cui uno shinkansen, i «treni proiettile», e un quarto trenino. Un’altra mezzora, salendo e scendendo dalla montagna, costeggiando il mare che però non si contempla.
L’oceano è interdetto alla vista, come se il solo guardarlo facesse male. Una barriera protettiva chiude infatti la costa, e ricorda quando lo tsunami ha superato nel 2011 l’anello di sicurezza e ha spazzato intere città. Centinaia di vite in una volta. Ricordo di avere visto il video dell’onda che scavalcava la protezione, lì, proprio lì, dove ora allungo il dito per indicarlo a mio marito.
Ryosuke annuisce, non domanda di più. Ricordo che si rifiutò di guardare quei filmati, gli parevano irrispettosi per chi in quei secondi moriva.
Lo spettacolo è desolante: casette nuove di zecca, circondate da grandi spazi di nulla. Solo un’insegna distingue una casa da un barbiere, un caffè da un negozio di pietre preziose. L’intera zona pare una palazzina abitata a malapena, con angoli sguarniti, stanze perlopiù sfitte.
Impieghiamo venti minuti a trovare Bell Gardia, ci perdiamo, giriamo a vuoto, le montagne alle spalle tinte d’autunno e coperte di nebbia. Poi lungo una strada in salita, sulla destra, noto come una deflagrazione di verde, su un breve sentiero un comignolo celeste, la cabina e la scritta in giapponese: Kaze no denwa. 
È il Telefono del Vento, guarda, sussurro a Ryosuke.
Trattengo a stento la commozione. Sono passate quasi dieci ore da quando siamo usciti di casa.
Siamo arrivati.

La signora Sasaki ci accoglie in una sorta di serra antistante all’ingresso della cucina, un tavolo al centro, la luce che gocciola ovunque, insieme alla pioggia sottile di fine novembre, sulle vetrate del tetto.
Sasaki-san, il guardiano, ci attende. È quando ci vengono serviti un tè dolcissimo e una torta di mele, che iniziamo.
Quante persone sono venute fino ad oggi al Telefono del Vento?
«Con precisione non si può dire, ma certo più di 35 mila».
Come accogliete le persone che salgono a Bell Gardia?
«Alcuni seguono il sentiero fino al Telefono del Vento, poi se ne vanno. È totalmente indipendente e noi neppure ci accorgiamo della loro presenza. Altri salgono da noi dopo che hanno parlato con i loro cari defunti, e gli andiamo incontro. Certi sono in lacrime, li invitiamo a entrare, a bere un tè insieme. Molti hanno bisogno di raccontare».
È importante anche il luogo, questo giardino meraviglioso..., dico voltandomi intorno, oltre le vetrate che non nascondono nulla.
«Lo è. Bell Gardia è anche un tramite per riprendere consapevolezza della realtà, una specie di ponte che collega il mondo dei vivi a quello dei morti. Arrivare qui sottintende un esercizio di...» Sasaki-san esita, cercando la giusta parola «... mindfulness».

Non ci sono appositamente cartelli; nessuna guida per arrivare. È proprio vagando, smarrendosi per questa campagna, che le persone pensano a tante cose, riformulano il ricordo di chi hanno perso. È esattamente in quella sorta di stato meditativo che arrivano al Telefono del Vento. Giungono qui in una condizione di più piena consapevolezza. Sono pronti.
«E poi serve mettere ordine nei propri sentimenti per parlare con un altro, una terza persona. Serve uscire dalla tragedia, dal guscio di dolore in cui ci si è chiusi. Chi viene al Telefono del Vento è già a metà strada. È pronto a creare una nuova relazione con il defunto».
In che senso?
«La vita è un lampo e non è pensabile che i legami si esauriscano nel corso dell’esistenza. È per questo che bisogna coltivare l’immaginazione fin da bambini. Senza l’immaginazione non si può capire il Telefono del Vento, e invece serve dare valore non solo a quello che si vede e si sente, ma anche a quanto c’è ma non ha forma, non ha voce».
È un po’ come il discorso che faceva Saint-Exupéry nel Piccolo Principe. La verità è nel cuore. E il cuore non si vede, come tutte le cose più importanti: le radici che sostengono l’albero, le fondamenta senza le quali una casa crollerebbe.
Sasaki-san apre la scatola dei pennelli, estrae il timbro con il simbolo di famiglia. Sulla prima pagina dei libri che ho portato perché me li autografasse scrive una frase: «Allevare la sensibilità, coltivare l’immaginazione».
«È per questo che non basta installare una cabina in un qualunque luogo del mondo per farne il Telefono del Vento. Bisogna creare i presupposti perché le persone lo possano usare. Per questo a Bell Gardia c’è la Biblioteca del Bosco, il Laboratorio Kikki per l’incontro tra bambini e animali, le letture pubbliche, i concerti...».
Per allevare l’immaginazione, faccio eco. E mi pare di capirlo davvero per la prima volta.
«Chi non ha quel tipo di immaginazione non sarà purtroppo in grado di usarlo, il Telefono del Vento».

In un lampo penso ai miei figli, mi accorgo degli usi sorprendenti dell’immaginazione. Che nei modi più inattesi può salvarti la vita.
Vengono ancora molti sopravvissuti al disastro del 2011?
«Sì, certo. Ultimamente però sono aumentati i parenti dei suicidi, figli giovani soprattutto che si sono tolti la vita. Proprio giorni fa è venuta una coppia da Aomori. Avevano desiderio di parlare, li abbiamo invitati al caffè. Il padre ha detto “è morto in un incidente”, ma si capiva che dietro c’era dell’altro. Lentamente si sono aperti, e la moglie alla fine ha spiegato che il figlio si era suicidato quando aveva 18 anni. Ci si vergogna, è ancora uno stigma, si cerca di nasconderlo».
«Sono morti improvvise, non come la malattia. Non si fa in tempo a prepararsi».
Resto senza fiato al pensiero di avere scritto questa frase nel libro, che si resta genitori anche quando muoiono i figli. Che si perde la parola «mamma», «papà», ma che il sentimento, quello resta comunque.
Vengono anche da molto lontano?
«Sì, da ogni parte del Giappone. Ricordo quattro amici venuti dall’isola di Ogasawara per parlare con un quinto amico perduto. Si erano fatti apposta 25 ore di viaggio».
«Ah, e quella coppia di avvocati da Washington?», interviene la signora Sasaki, alle spalle del marito. Siede un po’ defilata, sui gradini della brevissima scala che conduce al soggiorno. «Vennero a parlare con la madre perduta 17 anni prima. “Come mai siete venuti in Giappone? Dove andrete poi?”, gli chiedemmo. Risposero che erano partiti dall’America solo per venire qui!».
C’è stato qualcuno che è venuto per un motivo diverso?
«Un giorno venne a parlarci una professoressa di un’università medica di Tokyo. Ci disse che il suo lavoro consisteva nel coordinare il programma di donazione dei corpi per la ricerca, il contatto con le famiglie».
«Quanti lavori particolari ci sono a questo mondo, pensai», commenta la signora Sasaki.
«Pare che l’università riceva ogni anno cadaveri che vengono poi dissezionati e studiati durante le lezioni, e che i corpi vengano restituiti circa un anno dopo. Quella professoressa disse che si trovava sempre in grande difficoltà quando doveva ricontattare le famiglie del defunto».
Senza un corpo, non c’è cerimonia, le ossa non tornano alla famiglia, si rimane come in un limbo, commento assorta. Non si realizza probabilmente fino in fondo la morte.
«È il dramma di quelli che nel disastro del 2011 sono stati dichiarati dispersi», sussurra Ryosuke. «Non si ha un corpo su cui piangere, la percezione della morte in qualche modo si allontana».
La magia del Telefono del Vento sta anche nel fatto che supera le barriere di genere, di religione, di nazionalità, accenno. Le persone vengono da ogni parte del Giappone. Ma anche dal resto del mondo... America e poi? Da dove?
«Alcuni si sono messi in viaggio dall’Australia, dalla Germania, dalle Filippine».
«E poi Olanda, Spagna, anche Italia, Corea, Cina, Siria, Francia, Namibia...».
Le voci dei coniugi Sasaki si rincorrono con l’armonia delle coppie affiatate.
Le persone tornano a Bell Gardia?
«Sì, certo. Alcuni vengono periodicamente a portare notizie ai propri cari».
Notizie?
«È normale, la narrazione continua».

Per Sasaki osservare la rinascita delle persone è una gioia profonda. Incontrarli di nuovo a distanza di anni, notarne il punto di svolta, confrontarne il prima e dopo, stupendosi quasi si tratti della stessa persona.
Sono passate tre ore da quando abbiamo iniziato a parlare. E avverto già l’anima inspessirsi, la mia personale percezione della vita cambiare. È il dono della complessità, penso, e comprendo come parlare al Telefono del Vento è come ricostruire una nuova relazione con le persone amate, ancora diversa da quella che avevano quando erano in vita. Un dopo non meno importante del prima.
Mentre sorbiamo il tè e scende la sera, penso che venire qui è come diventare parte di una grande narrazione. Dare il proprio contributo al racconto della storia di un pezzetto di umanità, quella che resta.
Esiste una parola in giapponese per indicare i parenti dei defunti, i rimasti: izoku. Richiama la parola kazoku, «famiglia» in cui zoku è il «clan» e ka è la «casa», lì dove invece in izoku al «clan» si accompagna un altro ideogramma: i, che è «quanto resta». Chi resta.
Penso allora che dal momento in cui nasciamo entriamo tutti a far parte di quella grande, resiliente famiglia.
Siamo fin dal principio izoku. I Rimasti.